Proprio mentre ascoltavo le magnifiche armonie vocali di quest’album, la scrittrice dello Zimbabwe Tsitsi Dangarembga (premiata internazionalmente) veniva arrestata dalla polizia durante manifestazioni pacifiche che ad Harare, come a Bulawayo, chiedevano democrazia e il rilascio del giornalista Hopewell Chin’ono. Da anni lo Zimbabwe è attraversato da conflitti e divisioni di cui il governo è spesso il principale attore. Non è, quindi, un caso che la canzone con cui nel 2012 Black Umfolosi ha saputo conquistare l’intero paese sia “Unity”, rielaborazione del proverbio africano che dice: «Se vuoi andare veloce, vai solo. Se vuoi andare lontano, vai insieme agli altri». Da allora è una delle canzoni più ascoltate nel giorno dell’Indipendenza, così come è stata ripresa da spot commerciali quando vogliano veicolare anche messaggi di pace e sviluppo.
I Black Umfolosi nascono nel 1982 fra allievi della scuola George Silundika a Bulawayo, la seconda città del Paese, nella regione ndebele. Il nome del gruppo fa riferimento al luogo sacro dei loro antenati, il fiume Umfolozi Omnyama, oggi nella regione mineraria sudafricana del Natal. Negli anni Trenta dell’800, guerrieri zulu ndebele si ribellarono contro il re locale e decisero di migrare verso nord, stabilendosi con le loro famiglie nella regione che è oggi il Matabeleland, in Zimbabwe. Thomeki Dube, co-fondatore dei Black Umfolosi, ricorda come abbiano «portato con sé le proprie tradizioni culturali ed è a questo ricco patrimonio culturale che si rifanno le canzoni e le danze del gruppo; senza dimenticare di attingere da altre popolazioni dello Zimbabwe: shona, kalanga, shangaan ed altri vicini». Se in tour sono spesso in quintetto, in studio e sul palco in Zimbabwe è più frequente la formazione ad otto. Dube è cantante solista e compositore. Insieme a lui è rimasto nel gruppo un altro co-fondatore, il cantante Sotsha Moyo. Nel tempo hanno frequentato una varietà di stili: dal mbaqanga, ai ritmi gumboots, al mbube: «La nostra musica non è solo un modo per divertirsi, ma anche un veicolo per parlare di amore e di pace. Per affrontare le ingiustizie razziali e sociali. Sosteniamo il movimento Black Lives Matter. Come musicisti e persone che hanno girato il mondo vorremmo un modo migliore che privilegi pace, rispetto ed amore nelle relazioni umane. Accogliamo le diversità culturali e non identifichiamo le persone secondo una qualche razza. Per noi le diversità fra gli esseri umani sono fonte di bellezza. La musica può unire tutti, aldilà delle provenienze etniche, razziali, di genere, d’età. Non dobbiamo scegliere un colore per lasciare il segno e questo dovrebbe valere anche in altri campi».
Spiazzata negli anni’80, dopo l’indipendenza, dalla sua vicinanza alla matrice coloniale cristiana, la musica gospel si è gradualmente imposta nei decenni successivi insieme al diffondersi selle chiese indipendenti e della protesta sociale.
“Washabalal’ umhlaba”, il canto della Terra, è il quindicesimo album distribuito internazionalmente. Eccetto lo strumentale acustico “Ihoso Beat”, si tratta di dieci brani cantati a cappella che celebrano la Terra, l’umanità e le sue attività quotidiane, la fede.
“Coming Your Way” apre il disco con una serie di chiamate e risposte che augurano felicità, buono e lungo cammino. Lo schema si ripete con un gospel “Usemafini” (a gloria del “Creatore del Patadiso e della Terra, dell’Inizio e della Fine”), che vi farà tornare in mente i Ladysmith Black con Paul Simon in “Graceland”. Il terzo è il brano che dà il titolo all’album, “Washabalal’ umhlaba”, a ricordare a tutti l’importanza di prendersi cura del pianeta e dell’ambiente intorno a noi: «Dopo di noi verranno altre generazioni, possiamo rendere la Terra migliore se ce ne prendiamo cura così come la Terra si prende cura di noi». In questo caso il canto cresce di intensità ricorrendo anche al battito delle mani. Più esplicitamente “ritmica” è “Ihoso Beat” che, oltre al battito delle mani, mette in gioco tamburi, shaker, e abili modi di fischiare così come avviene per le danze tradizionali Amabhiza dei kalanga. Un disco con un gran bel respiro.
Alessio Surian
Tags:
Africa