Negli anni ’30 del secolo scorso tocca a una donna africana di estrazione contadina imprimere un cambiamento epocale al taraab di Zanzibar, il genere musicale fino allora prevalentemente di dominio maschile e rivolto ai ceti abbienti di origine araba. Siti Binti Saad (1880-1950; Siti significa “signora” in swahili), nativa di un villaggio posto a poche miglia dalla capitale dell’arcipelago crocevia di tutto l’Oceano Indiano, proveniente da una famiglia di schiavi affrancati, è una delle prime donne a esibirsi in pubblico con un gruppo maschile. Con il suo stile porta la musica dalla corte del sultano nella strada, adattandola al gusto popolare; abbandona l’arabo per adottare lo swahili e, naturalmente, incrocia la nascente industria discografica, incidendo 78 rpm in India e in Africa Orientale. Va oltre le restrizioni di genere e con il crescere della sua reputazione le sue canzoni abbandonano i classici temi romantici del taraab per descrivere la vita quotidiana di Zanzibar, trattare temi come la violenza sulle donne, la corruzione politica e giudiziaria o l’amore privato del consueto sentimentalismo. Il suo retroterra rurale la porta a innestare elementi coreutici africani nelle sue performance.
Si erano messi sulle tracce della musica e dell’eredità di Siti Binti Saad, Pete Buckenham della label britannica OnTheCorner Records (onthecornerrecords.bandcamp.com) e il produttore Sam Jones
(della SoundThread), quando nell’isola dell’Oceano Indiano appresero dell’esistenza di una pronipote di Siti Binti Saad dalla gran voce: Siti Muharam, affiliata alla banda militare taarab per ovviare alla volontà conservatrice della famiglia restia a concederle la libertà di una propria attività artistica. Con il contributo fondamentale nella direzione artistica dell’oudista Mohamed Issa, conosciuto come Matona e figlio d’arte (suo padre è Issa Matona del gruppo JKT Taarab), ha preso forma il progetto che ha portato alla creazione dell’album “Siti of Unguja: Romance Revolution on Zanzibar”, in cui Unguja è il nome della principale isola dell’arcipelago di Zanzibar, dove si trovano Stone Town (la parte antica della capitale) e il villaggio di Fumba, di cui era originaria la bisnonna Siti Binti Saad.
Matona ha raccolto un piccolo ensemble di giovani dotati musicisti locali: Fadhil ai tamburi a calice, Gora Mohamed Gora al qānun e Nema ai cori, ma se da un lato si è orientato verso un’operazione di revival dello stile Siti Binti Saad,
con le scale di ascendenza araba e gli elementi ritmici africani, dall’altro sono stati innestati elementi contemporanei con le cordiali aperture funky, l’uso misurato di elettronica (Sam Jones è alle tastiere e alla produzione in studio), contrabbasso (Stian Anderson) e clarinetto basso (Tamar “Collocutor” Osborn) e gli interventi con sovra-incisioni ed effetti realizzati con dovizia in studio al Secret Sundaze di Londra, che caratterizzano fin da subito il denso e fluttuante strumentale d’apertura “Machozi ya Huba” (“Lacrime d’amore”). ‘Ūd, qānun e percussioni assumono un ruolo centrale in “Sikitiko” (“Dolore”), dove finalmente entra la grazia vocale di Siti Muharam. L’incrociarsi di stratificazioni percussive e corde è uno dei punti di forza di “Pakistan”, in cui il coro risponde alla voce vintage di Muharam. Issa porta in dote “Nyuki”, un motivo scritto da suo padre, a sua volta allievo di Siti Binti Saad, cantata a due voci, con un bel giro ritmico iniziale, l’’ūd del virtuoso direttore musicale a occupare la parte centrale del brano e l’inusitato fraseggio staccato del clarinetto. Finalmente, Muharam interpreta “Kijiti”, una delle canzoni più potenti del canzoniere della sua ava, racconto dell’orribile stupro e dell'omicidio di una giovane donna incinta, non risparmiando le accuse al sistema giudiziario per l’ingiusto processo che lascia liberi i colpevoli (supervisionato dall'amministrazione coloniale britannica) e imprigiona le donne testimoni. Nella parte finale del testo il responsabile del crimini “Kijiti” è avvisato di non andare a Dar es Saalam dove lo aspetterà la giustizia della strada. Siamo di fronte a un altro vertice dell’album non soltanto per l’emozione che traspare dal canto di Siti Muharam, ma anche per il lavoro di percussioni e contrabbasso e dei cordofoni. Sempre dal repertorio di Siti Binti arriva anche “Alaminadura” (“Ciò che va, torna”), in cui alla struttura responsoriale corrisponde una notevole narrazione strumentale.
Dice Matona: «Il passato ci ha aiutato a trovare un suono futuro in cui una nuova generazione può andare avanti con il groove mentre porta avanti la tradizione».
Ciro De Rosa
Tags:
Africa