Transglobal Underground – Walls Have Ears (Mule Satellite Recordings, 2020)

Il ritorno discografico dei Transglobal Underground è un tributo alla malleabilità della dub e dell’elettronica, tele che gli artisti “sporcano” di colori esotici e variegati. D’altronde la band non ha mai preso la strada più battuta per raccontarsi, abbracciando con entusiasmo diversi generi musicali. Ma le linee di basso, i groove di batteria e le massicce dosi di delay puntano alla dubtronica come locomotiva trainante. “Walls Have Ears” è un disco pulito, la cui produzione esalta l’estrosa fusione di stili ed atmosfere, contribuendo con stile al sempre più ricco palinsesto elettro-world. Ma benché formalizzato nell’esecuzione, l’album rimane emotivamente e tematicamente ancorato al mondo underground, di cui esprime molteplici sfaccettature identitarie ed espressive. I Transglobal Underground sono un collettivo inglese dalla formazione fluida, caratterizzata da frequenti cambi, collaborazioni e ritorni temporanei. Proprio in questo disco s ripresenta in studio Natacha Atlas, la prima voce a guidare la band nel debutto discografico nel ’93. Con lei avevano registrato “Temple Head”, brano che lanciò la band quando venne inserito in uno spot per le Olimpiadi di Atlanta nel ’96. Ma i nomi non si fermano qui: Yazz Ahmed alla tromba porta la delicatezza del jazz di stampo mediorientale; Il grandissimo cantastorie Tuup, pilastro del collettivo, ci porta invece nel mondo della spoken word; il sitar di Sheema Mukherjee, una delle maggiori interpreti nel Regno Unito, si fa portavoce della tradizione Indiana; mentre Dubulah cura le frequenze basse con il suo stile unico, influenzato fortemente dal funk e dal jazz etiope. Questi ed altri nomi molto ben conosciuti in diverse scene inglesi, dal jazz al rap passando per la classica indiana, contribuiscono al melting pot stilistico del disco. Un album di contrasti e sovrapposizioni, che gioca osando con passato, presente e futuro: membri vecchi e nuovi, stili moderni e senza tempo, produzione ed acustico. Ma la radice dubtronica è chiara dall’inizio, le prime note di “City in Peril” ricalcano infatti classici elementi del reggae ma con una batteria più incalzante. Interessantissimo il break centrale, dove si perde la pulsazione e la musica si dispende lasciando spazio alla tromba della Ahmed. Ottimo il contrasto con l’incipit indiano di “Ruma Jhuma”, dove tabla voce e sitar illudono l’ascoltatore, che prima dell’ingresso di basso e batteria può pensare di trovarsi per sbaglio in una playlist mistico-etnica. La sitarista Sheema Mukherjee e Natacha Atlas duettano alla voce, con melodie e testi improvvisati in hindi e arabo. “The People Carrier” e “Mind the Gap” si concentrano su sfaccettature della capitale inglese. La prima guarda il lato oscuro delle case popolari e delle famiglie meno abbienti, descrivendo con una musica alienante ed evocativa gli effetti della gentrificazione sugli ultimi, in una società con marcate differenze sociali. La seconda, invece, è un tributo alla Central Line, la linea rossa della metro. Ritmiche incalzanti, una voce robotica che chiama le fermate, cori femminili e spoken word si alternano a stacchi marcatamente indiani, probabilmente a voler simboleggiare la varietà etnica e culturale della città. “Polo Neck” è trainata da una fantastica linea al synth e da un potente groove, mentre nell’intro i musicisti sembrano volerci trasportare nelle sigle di vecchi cartoni giapponesi. Più essenziale e futuristica, “Stand up (Nifhamou)” gioca con sintetizzatori taglienti, loop di filastrocche cantate in coro da bambini, e arabeggianti melodie vocali. Il tutto è sorretto da ritmiche forti e ripetitive, come a voler indurre la trance. Nell’unico brano acustico, “Future Ghost”, possiamo invece godere della grande capacità vocale di Natacha Atlas. Accompagnata dal sitar, la cantante propone una composizione a metà tra l’alap indiana, improvvisazione non metrica dove l’artista esplora il raga scelto, e la melismatica performance vocale della tradizione araba. La sua padronanza degli stilemi tipici della tradizione indiana è stupefacente. Elettronica, dub, musica indiana, araba, spoken word e hip hop sembrano reinventare i propri confini per abbracciarsi senza forzature. Il mix dei Transglobal Underground è gradevolissimo e sfrutta i punti di forza di ognuno di questi stili, che così presentati creano un linguaggio fresco, originale e soprattutto coerente con l’etica della band. L’incontro di differenti personalità e culture, il continuo confronto con volti nuovi e familiari, e la capacità di saper evolvere coi tempi non possono che portare ad un’identità musicale forte e particolare. “Walls Have Ears” è un disco che nonostante le sperimentazioni e i viaggi rimane estremamente ballabile, grazie alla coerenza dubtronica che accomuna praticamente l’album intero. Immancabile aggiunta per gli appassionati del genere (e non), con il valore aggiunto di aprire porte ad altri mondi a molti sconosciuti. 


Edoardo Marcarini

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