#CONSIGLIATOBLOGFOOLK
Poco più che quarantenne, a ragione considerato un astro della nuova sevdalinka (o sevdah) bosniaca, genere carico di sentimento e passione, Damir Imamović si presenta al pubblico con un nuovo lavoro il cui senso si esplicita fin dal titolo, che evoca le ricerche sul campo degli anni Trenta del secolo scorso condotte da Milman Parry e Albert Lord in Bosnia e Erzegovina e in aree confinanti (confluiti nel volume di quest’ultimo, “The Singer of Tales”) sulle forme e le tecniche narrative della tradizione epica balcanica. Per Imamović, il lirismo della sevdah si inscrive nella linea di discendenza della tradizione dello storytelling, al di là delle forme di modernizzazione del genere. Nel canto non si produce la personalizzazione della prospettiva, perché il cantante assume il ruolo di narratore, impossessandosi di storie del passato e del presente. Della musica di questa figura centrale del canto di Sarajevo e del suo notevole pedigree artistico e familiare ci siamo già occupati in queste pagine; passiamo, pertanto, a presentare l’album che è stato prodotto nientemeno che da Joe Boyd e da Andrea Goertler, entrambi catturati dal canto di Damir, incontrato nel corso di una permanenza nella capitale bosniaca nel 2014. Ad occuparsi della resa fonica si è seduto Jerry Boys, uno che - per intenderci - ha registrato Sandy Denny, Ali Farka Touré, REM, Buena Vista Social Club e Toumani Diabaté. II trio che accompagna la voce tenorile di Imamović (che suona anche chitarra e tambur) è una parata di stelle: il virtuoso turco del kemenche Derya Türkan, incontrato in uno dei prestigiosi workshop masterclass cretesi messi su da Ross Daly; la violinista bosniaca Ivana Đurić, concertista di fama in patria, oltre che affiatata collaboratrice del cantante;
il contrabbassista Greg Cohen, un luminare del basso che ha suonato con Ornette Coleman, Bob Dylan, John Zorn e Tom Waits (mi fermo qui, ma l’elenco potrebbe continuare) incontrato a un concerto croato a Pola. I quattro sono transitati anche in Italia nel 2018 per un concerto perugino nell’ambito della Sagra Musicale Umbra. La nostalgia del paesaggio natio che scaturisce dalla condizione di migrante è il tema della memorabile “O Bosanske Gore Snježne”, scritta da Omer Ombašić, un bosniaco musulmano espulso durante la guerra degli anni Novanta, che oggi vive in Svezia. La voce ci conduce nel racconto ottocentesco di “Poljem Se Vija Hajdar Delija”, in cui risplende la combinazione di corde del trio di strumentisti. Il tema dell’amore nella sua dimensione di ligia osservanza di convenzioni e prescrizioni nel periodo del corteggiamento, introdotto nella canzone precedente lascia il passo alla delicatezza di “Kafu Mi Draga Ispeci”, una delle sevdalinka più popolari, osteggiata nella Jugoslavia degli anni Sessanta per il suo testo considerato all’epoca troppo esplicito. Pure “Sunce tone”, che ci fa ondeggiare con le sue movenze di valzer, è stata considerata ideologicamente sospetta, perché esprimeva il romanticismo decadente delle liriche di Aleksa Šantić, poeta di Mostar di fine XIX secolo. Troviamo il topos della madre che lamenta la partenza del figlio per la guerra in “Kad Bi Ovo Bio Kraj”, elaborata su un ritmo di 10/8 di origine turca portato in dote da Derya, il cui fraseggio illumina il brano; Damir canta di un antico rituale di addio consistente nel versare dell’acqua dietro chi è in procinto di partire per un viaggio pericoloso. Segue “U Stambolu Na Bosforu”, dove ci si tuffa nella lunga storia di dominio dell’impero Ottomano: la canzone racconta della fine del sultano e del suo harem. Incisa nel 1942, è stata interpretata e resa popolare, tra gli altri, dal nonno Zaim, che è stato un celebrato cantante di sevdalinka. Diverse anime convivono nell’eclettismo della sevdah (slava, austriaca, islamica, ebraica, rom), come è evidente in “Adio Kerida”, un canto tradizionale degli ebrei sefarditi di Sarajevo
cantato in ladino (prima della seconda guerra mondiale gli ebrei costituivano il 10% della popolazione). Nel tradizionale “Salko se vija”, il tema dell’amore confligge con la struttura patriarcale della famiglia che nel matrimonio vedeva una strategia di investimento economico: qui la vivacità strumentale è data dall’alternanza tra pizzicato solista del violino e il consesso di cordofoni che si alternano nell’accompagnare il cantante. Per contrasto, ha un incedere minimale “Puhni tihi vjetre” , costruita sul dialogo tra il timbro caldo della voce e il contrabbasso. Con “Gdje si dragi”, Imamović omaggia il lavoro di Parry che la raccolse negli anni Trenta; la canzone divenne poi famosa grazie all’interpretazione delle dive della sevdah Nada Mamula e Zehra Deović: al pathos della voce si accompagna il libero fraseggio del violino, che evoca lo stile dei musicisti rom, in un tributo a una popolazione che ha dato molto a questo genere urbano. Avendo iniziato con un canto di esilio anelante al ritorno a casa, Imamović chiude il cerchio con “Čovjeku Moje Zemlje”, in cui, rivolgendosi al suo Paese, canta: «Sei più grande delle tue paure/ Più forte del tuo dolore…/ Dai alito a qualcosa di nuovo», un canto di speranza per una Bosnia che superando le ferite della guerra, il nazionalismo e la resistenza al cambiamento si incammini verso un nuovo futuro.
Poco più che quarantenne, a ragione considerato un astro della nuova sevdalinka (o sevdah) bosniaca, genere carico di sentimento e passione, Damir Imamović si presenta al pubblico con un nuovo lavoro il cui senso si esplicita fin dal titolo, che evoca le ricerche sul campo degli anni Trenta del secolo scorso condotte da Milman Parry e Albert Lord in Bosnia e Erzegovina e in aree confinanti (confluiti nel volume di quest’ultimo, “The Singer of Tales”) sulle forme e le tecniche narrative della tradizione epica balcanica. Per Imamović, il lirismo della sevdah si inscrive nella linea di discendenza della tradizione dello storytelling, al di là delle forme di modernizzazione del genere. Nel canto non si produce la personalizzazione della prospettiva, perché il cantante assume il ruolo di narratore, impossessandosi di storie del passato e del presente. Della musica di questa figura centrale del canto di Sarajevo e del suo notevole pedigree artistico e familiare ci siamo già occupati in queste pagine; passiamo, pertanto, a presentare l’album che è stato prodotto nientemeno che da Joe Boyd e da Andrea Goertler, entrambi catturati dal canto di Damir, incontrato nel corso di una permanenza nella capitale bosniaca nel 2014. Ad occuparsi della resa fonica si è seduto Jerry Boys, uno che - per intenderci - ha registrato Sandy Denny, Ali Farka Touré, REM, Buena Vista Social Club e Toumani Diabaté. II trio che accompagna la voce tenorile di Imamović (che suona anche chitarra e tambur) è una parata di stelle: il virtuoso turco del kemenche Derya Türkan, incontrato in uno dei prestigiosi workshop masterclass cretesi messi su da Ross Daly; la violinista bosniaca Ivana Đurić, concertista di fama in patria, oltre che affiatata collaboratrice del cantante;
il contrabbassista Greg Cohen, un luminare del basso che ha suonato con Ornette Coleman, Bob Dylan, John Zorn e Tom Waits (mi fermo qui, ma l’elenco potrebbe continuare) incontrato a un concerto croato a Pola. I quattro sono transitati anche in Italia nel 2018 per un concerto perugino nell’ambito della Sagra Musicale Umbra. La nostalgia del paesaggio natio che scaturisce dalla condizione di migrante è il tema della memorabile “O Bosanske Gore Snježne”, scritta da Omer Ombašić, un bosniaco musulmano espulso durante la guerra degli anni Novanta, che oggi vive in Svezia. La voce ci conduce nel racconto ottocentesco di “Poljem Se Vija Hajdar Delija”, in cui risplende la combinazione di corde del trio di strumentisti. Il tema dell’amore nella sua dimensione di ligia osservanza di convenzioni e prescrizioni nel periodo del corteggiamento, introdotto nella canzone precedente lascia il passo alla delicatezza di “Kafu Mi Draga Ispeci”, una delle sevdalinka più popolari, osteggiata nella Jugoslavia degli anni Sessanta per il suo testo considerato all’epoca troppo esplicito. Pure “Sunce tone”, che ci fa ondeggiare con le sue movenze di valzer, è stata considerata ideologicamente sospetta, perché esprimeva il romanticismo decadente delle liriche di Aleksa Šantić, poeta di Mostar di fine XIX secolo. Troviamo il topos della madre che lamenta la partenza del figlio per la guerra in “Kad Bi Ovo Bio Kraj”, elaborata su un ritmo di 10/8 di origine turca portato in dote da Derya, il cui fraseggio illumina il brano; Damir canta di un antico rituale di addio consistente nel versare dell’acqua dietro chi è in procinto di partire per un viaggio pericoloso. Segue “U Stambolu Na Bosforu”, dove ci si tuffa nella lunga storia di dominio dell’impero Ottomano: la canzone racconta della fine del sultano e del suo harem. Incisa nel 1942, è stata interpretata e resa popolare, tra gli altri, dal nonno Zaim, che è stato un celebrato cantante di sevdalinka. Diverse anime convivono nell’eclettismo della sevdah (slava, austriaca, islamica, ebraica, rom), come è evidente in “Adio Kerida”, un canto tradizionale degli ebrei sefarditi di Sarajevo
cantato in ladino (prima della seconda guerra mondiale gli ebrei costituivano il 10% della popolazione). Nel tradizionale “Salko se vija”, il tema dell’amore confligge con la struttura patriarcale della famiglia che nel matrimonio vedeva una strategia di investimento economico: qui la vivacità strumentale è data dall’alternanza tra pizzicato solista del violino e il consesso di cordofoni che si alternano nell’accompagnare il cantante. Per contrasto, ha un incedere minimale “Puhni tihi vjetre” , costruita sul dialogo tra il timbro caldo della voce e il contrabbasso. Con “Gdje si dragi”, Imamović omaggia il lavoro di Parry che la raccolse negli anni Trenta; la canzone divenne poi famosa grazie all’interpretazione delle dive della sevdah Nada Mamula e Zehra Deović: al pathos della voce si accompagna il libero fraseggio del violino, che evoca lo stile dei musicisti rom, in un tributo a una popolazione che ha dato molto a questo genere urbano. Avendo iniziato con un canto di esilio anelante al ritorno a casa, Imamović chiude il cerchio con “Čovjeku Moje Zemlje”, in cui, rivolgendosi al suo Paese, canta: «Sei più grande delle tue paure/ Più forte del tuo dolore…/ Dai alito a qualcosa di nuovo», un canto di speranza per una Bosnia che superando le ferite della guerra, il nazionalismo e la resistenza al cambiamento si incammini verso un nuovo futuro.
Ciro De Rosa
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