
Come vivete la vostra vita in esilio fra Paris, Tamanrasset e le zone di confine fra Algeria e Mali?
Sono un nomade. La mia valigia è pronta. Ho sempre la chitarra in spalla. Non abito da nessuna parte. Sono dappertutto e in nessun luogo. Tokio, Parigi, Algeria, Kidal... vivo da nomade. Dove vorrei vivere? È una buona domanda che spesso mi faccio. Se mai dovessi scegliere una condizione stabile, vorrei vivere fuori mano, lontano dalla società dei consumi. Il deserto sarebbe perfetto, perlomeno come l’abbiamo conosciuto in passato. Intendo il deserto prima che arrivassero i jihadisti, gli squali, i droni e gli aerei...
Abbiamo percorso molta strada, ora abbiamo un gruppo davvero solido. Siamo in grado di creare la musica che amiamo. Un mix fra le nostre tradizioni e le influenze del rock moderno. Ovviamente queste influenze rock ce le offrono i nostri amici francesi, ma anche noi siamo grandi fan della musica occidentale ed i musicisti francesi che suonano con noi spesso vengono con noi nel deserto e ne sono ispirati: cross-over in tutti i sensi.
Come avviene il processo di composizione e creazione dei brani?
Compongo spesso e molto durante i miei viaggi. Ma i membri di Tamikrest vivono sparsi nel mondo. Quindi, cerchiamo di comporre molto durante i tour. Partiamo dalle mie composizioni ed ognuno aggiunge elementi nuovi. A volte organizziamo incontri residenziali per lavorare alle nuove canzoni. Cerchiamo di lavorare insieme il più possibile, ma nelle nostre condizioni non è facile. Ma facciamo in modo che tutto sia pronto prima di entrare in studio di registrazione.
“Tamotaït” significa speranza in un cambiamento positivo. A cosa si riferisce?
Veniamo da lontano e abbiamo vissuto intensamente. Le canzoni sono nate lungo la via. Parlano di cambiamenti che possano rivelarsi positivi. La nostra situazione oggi nel deserto è davvero estrema.

In che modo le vostre canzoni parlano del contesto politico attuale nel Sahara e specificamente nell’Azawad?
In questo album canto in onore della mia gente, sparsa in cinque stati diversi, un popolo guidato da gente che non conosce la nostra tradizione, cultura e identità. Canto il mio desiderio che un giorno ci sia possibile avere il diritto di decidere il nostro futuro, il futuro della mia gente. Siamo persone che vogliono vivere in libertà, vogliamo vivere e diffondere la nostra identità, la nostra cultura. Dopo il periodo coloniale, siamo stati divisi fra cinque stati e siamo governati da chi non sa nulla della nostra tradizione. Come artista vedo una sola soluzione: avere diritto al nostro potere di decisione e al nostro territorio. E’ ancora la mia speranza, dopo 50-60 anni di oppressione. Non so cosa voglia dire “cooperazione internazionale”. Non credo più nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, nei trattati internazionali eccetera. Difendono i propri interessi. Quando i loro interessi sono coinvolti in un conflitto, difendono io propri interessi. Se non ci sono interessi da difendere, non fanno nulla. Io spero che un giorno si possa uscire da questa situazione. Spero la nostra musica possa rendere le persone consapevoli di questa situazione. E forse ci sarà chi si mobilizzerà per sostenerci.
Come avete deciso di coinvolgere la cantante Hindi Zahra nel vostro disco?
Hindi Zahra è una grande cantante! L’ho conosciuta grazie al nostro chitarrista, Paul Salvagnac che suona anche nel suo gruppo. Ci siamo incontrati a Bruxelles durante un concerto all’Ancienne Belgique. La amiamo! L’abbiamo immediatamente invitata a lavorare insieme per il nuovo album ed ha accettato. Chi può sapere cosa ci riserverà il futuro…
Come hai incontrato ed hai cominciato a collaborare con Atsushi Sakta and Oki Kano?
La nostra prima esperienza giapponese risale al 2017. In quell’occasione abbiamo incontrato Oki. Lo amiamo! Suona uno strumento che mi era sconosciuto, il ton-keri. Abbiamo suonato insieme durante un festival a Toyota City. Un anno dopo sono tornato in Giappone per visitarlo, per conoscere un paese molto distante da ciò che conosco, il deserto. Ho viaggiato in lungo e in largo. In quel periodo ho suonato con diversi musicisti giapponesi. Ho voluto che quell’influenza giapponese fosse presente nel nuovo album di Tamikrest. Per me è molto importante mostrare come la musica sia universale.

Che ruolo ha avuto nel registrare Tamotaït la collaborazione col produttore David Odlum?
Siamo molto soddisfatti del risultato e a David va una buona parte del merito. Volevamo un suono vintage. Nel 2014 avevamo preso in considerazione lavorare con il Black Box Studio in Francia. E’ perfetto per noi, permette di ascoltare tutto molto chiaramente, genera l’energia giusta. David ci ha lavorato dieci anni, lo conosce a menadito. Insomma, era un desiderio che coltivavamo da lungo tempo e David era la persona ideale per fare da produttore. Ci ha molto aiutato nel trovare il suono giusto, a scegliere microfoni ed amplificatori giusti.... E ha influenzato la direzione che hanno preso alcune canzoni. La sua influenza è chiaramente percepibile.
Tamikrest – Tamotaït (Glitterbeat, 2020)

Alessio Surian