Salviamo il Tenco dalle canzoni senza aggettivi

Da orfano inconsolato dell’ideologia e della canzone d’autore che c’era e non c’è più –svaporata per progressiva afasia discografico-sociale - mi permetto di dissentire sul corso novissimo intrapreso dal Club Tenco e su quanto scrive Sergio Secondiano Sacchi relativamente al focus “Anni venti del nuovo millennio: una canzone senza aggettivi” programmato all’interno della Rassegna della Canzone d’autore di quest’anno (15-16-17 ottobre). Leggo il comunicato stampa che lo annuncia. Rileggo. Resto di stucco, e (ahimè) non è un barbatrucco. La citazione che segue è copiosa ma necessaria: restituisce molto del reazionarismo musicale introdotto da Sacchi: "Per prendere le distanze da quella che, con attributo poi messo sotto accusa, una volta veniva semplicemente definita “musica leggera” - scrive il neo-patron del neo-Club Tenco - dalla fine degli anni Cinquanta l’uso di genitivi e aggettivi ha sempre condizionato la canzone italiana. Come logico e naturale, i desideri di differenziazione e di orgogliosi posizionamenti hanno infarcito il vocabolario musicale di denominazioni indicanti, di una canzone, non solo la provenienza culturale o il linguaggio stilistico (etnica, rock), ma anche il contenitore di diffusione (commerciale, da festival) stabilendo automaticamente una sorta di contrapposizione qualitativa (canzone impegnata o d’arte da una parte e canzone pop, d‘evasione o gastronomica dall’altra). 
La contrapposizione, anche dura, tra provenienze e contenitori aveva una logica pregnante negli anni ’60 e ’70, alla nascita del Club, ma non possiamo pensare di restare lì immobili e che il mondo intorno a noi sia immutato. Viviamo, come Club Tenco, da quarantasei anni; siamo più vecchi della DDR, è caduto il muro di Berlino ma, immaginando un mondo immutabile, c’è qualcuno che vuole ancora fili spinati ideologici e culturali (…) Rappresentando obsolete barriere culturali, estetiche e qualitative, certe etichettature e denominazioni di origine incontrollata hanno perso ogni ragione di sopravvivenza. Non volendo rappresentare un’istituzione che esiste solo per dare patenti di qualità al cantautorato italiano e riprendendo le autorevoli indicazioni di Luciano Berio e di Roberto Leydi, il Club Tenco crede che, riguardo alla canzone, gli unici aggettivi con diritto di cittadinanza siano “bella” o “brutta”". Arrivato a questo punto non so più se sgomentarmi, incazzarmi o arrendermi al delirio allucinatorio che mi ha colpito. Non credo ai miei occhi: possibile che la spasmodica rincorsa al nuovo abbia snaturato a tal punto la mission originaria del Club Tenco? Possibile che la (s)mania di una sopravvivenza coatta e al passo coi tempi lo abbia indotto tanto sfacciatamente all’abiura? Alla totale rimozione di cosa il Tenco abbia rappresentato per la canzone d’autore fino ai fottuti anni zero dei lasciapassare a Caparezza, Jovanotti e simili? (Caro Sacchi se questi sono i nuovi cantautori evviva i tempi della DDR!). 
E dire che all’epoca in cui la Rassegna era un luogo dello spirito, frequentato dalla genia dei Guccini & Co., il Grande Riformatore era del gruppo. Sergio Secondiano Sacchi c’era e faceva, non essendosi ancora stufato (tutt’altro) di aggettivare e distinguere tra canzoni e canzoni. Adesso auspica una svolta che - per schizofrenica coda di paglia e inopportunità - mi fa pensare a un’altra svolta dai risultati nefasti: quella ricordata come la svolta “della Bolognina”, grazie alla quale Occhetto ha fatto fuori il PCI e mezzo secolo di storia patria. Ma almeno nel suo caso si ebbe la decenza di cambiare nome a quel che rimaneva del partito. Nella fattispecie l’intento sarebbe quello di snaturarsi rimanendo al riparo di un nomen omen (“rassegna della canzone d’autore”) ibridabile attraverso inopinate commistioni di genere. E d’altro canto: se il nuovo corso sacchiano auspica davvero una canzone non-aggettivabile, sgombra di “obsolete barriere culturali” (ma quando mai?) e “patenti di qualità”, perché insistere ulteriormente con il termine “canzone d’autore” per appellare la Rassegna? A me pare una contraddizione in termini di evidenza apodittica. Perché a questo punto, non chiamare la nuova Cosa (per ritornare a Occhetto), Festival di Sanremo-bis? (di questo passo…). Perché servirsi ulteriormente del nome di Luigi Tenco che proprio per adesione strenua alla canzone di contenuto, dopo la bocciatura nazional-popolare dell’Ariston, ci rimise la vita? (ebbene sì, sono ancora affezionato alle aggettivazioni. Sono di parte e rivendico il diritto di distinguere). Sia detto nei toni meno sentenzianti che vi riesce di pensare: l’autoreferenzialità e le memorie corte nuocciono gravemente alla coerenza ontologica prima ancora che a quella artistica. Di tanto in tanto, sarebbe utile ricordarsi dell’imprinting (compreso l’imprinting ideologico) che ci ha reso ciò che siamo; e in merito alle canzoni, ricordarsi di quanto vacue fossero le stesse, prima dell’avvento della “corrente artistica cantautorale.” 
All’Italia in ginocchio del primo dopoguerra serviva, del resto, una canzone di tipo ecumenico e/o spensierato. Una canzone consolatoria, deamicisiana, che potesse funzionare al contempo da medium e da collante pedagogico. Le strofe delle canzoni effondevano retorica. Fino alla fine degli anni Cinquanta le canzoni popolari erano l’eco enfatica attraverso cui perpetuare stereotipi: mamme angelo del focolare, mariti devoti, figli altrettanto, afflati patriottici, slanci stilnovisti, passioni irreggimentate, costituivano l’humus contenutistico sul quale edificare strofe e sogni rosa confetto. Faceva comodo, allora, una canzone così. Una canzone funzionale a se stessa, adesa al canone compositivo e interpretativo vigente. Fino all’ascesa rivoluzionaria e salvifica dei cantautori (metà abbondante degli anni Sessanta) le cose sono andate in questo modo. E’ grazie ai cantautori che la canzone popolare dismette i panni di canzone mediale per assumere quelli trans-mediali: è un fatto che nel corso del lungo Sessantotto (1968/1978) la canzone si irrora di nuovi contenuti e nuove poetiche di caratura dirompente. E’ un altro fatto che per quanto riguarda la matrice e lo spessore letterari dei testi, da allora e finchè è durata la canzone d’autore, non ce n’è stato per nessuno. Se il primo Vecchioni già rimanda ai miti classici e alla letteratura, Guccini (ancora) rima fra i tanti Barthes e Sartre. 
E Francesco De Gregori, nei suoi primi album, si connota per l’impiego di una semantica del verso autenticamente sovversiva (e adesso si vorrebbe disaggettivare? Omogeneizzare canzoni e canzonette?). Ma certo queste cose non vengo a spiegarle certo io, meno che mai vengo a spiegarle a Sergio Secondiano Sacchi. Questa contro-storia inalienabile della canzone italiana, Sergio Secondiano Sacchi la conosce bene. Facciamo che in questi ultimi anni ha deciso di rinnegarla più o meno in buona fede, andando incontro alle espressioni di una futile new wave che è legittimata a esistere (per carità di dio) ma come diversa rispetto alla canzone d’autore. Una canzone d’autore della quale il Tenco si è posto ab origine come ritrovo privilegiato. Inaugurare - proprio al Club Tenco - l’epoca avalutativa della canzone senza aggettivi, in sede pratica e teorica, rischia di nullificarne dunque il senso fondativo. E qualora questa deriva qualunquista (si può ancora scrivere, caro Sacchi, senza che lei possa darmi del passatista, o peggio?) avesse davvero a realizzarsi, non basterebbe certo una targa lava-coscienza al Claudio Lolli di turno per rimettere le cose a posto, e ricondurre la rassegna alle smarrite coordinate di partenza. Che sono e dovrebbero restare – repetita juvant - quelle di istituzione-alveo della canzone aggettivata come canzone d’autore. Una canzone vivaddio diversa da quella comune (anche se “bella”). 
Una canzone d’autore come espressione colta, stratificata, impegnata, para-poetica e para-letteraria. Una canzone d’autore che – di contro all’uso improprio del termine che oggi se ne fa - andrebbe filologicamente restituita alle sue direttive di senso (cosa canti e più ancora come lo canti). Direttive di senso che il Tenco dovrebbe rivendicare invece che obliare. E’ vero che i tempi cambiano, ma i nostri tempi sono cambiati in peggio. E la canzone ha giocoforza seguito l’andazzo, miope non accorgersene e adeguarsi alla scia. Altro che “diritto di cittadinanza” ai soli aggettivi “bello” o “brutto”. Mai come in quest’epoca di libertà obbligatorie (Gaber), luoghi comuni e scritture poverissime, la storica canzone d’autore (sì, caro Secondiano Sacchi, proprio quella pre-Muro di Berlino che peraltro nulla aveva a che vedere con il Muro di Berlino) andrebbe riscoperta-ristudiata a scopo disalienante. Andrebbe recuperata e veicolata di nuovo attraverso seminari, studi, omaggi, dibattiti (compresi quelli ideologici sulla preoccupante latitanza di significato e significante dell’attuale forma-canzone, altro che…), eventuali reinterpretazioni, senza confonderla con l’altra canzone. Che può essere “bella” come “bella” può essere la canzone alla Massimo Ranieri, ma è e dovrebbe restare altra cosa rispetto a quella d’autore. 

N.B.: ogni riferimento a persone, brani musicali o artisti citati in questo articolo NON è puramente casuale. E’ privo altresì del minimo livore, convinto come sono della necessità di appellare con nuovi aggettivi, quegli autori che, seppure capaci, NON sono e non possono dirsi appartenenti alla corrente musicale estinta dei cantautori italiani. 

Mario Bonanno

2 Commenti

  1. Non poteva essere scritto meglio, complimenti! Un solo appunto, nel 1967 il Festival si svolgeva al Casinò di Sanremo, non ancora all’Ariston

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  2. Club Tenco tessera n.84 (forse 1975, non ricordo).
    A proposito di "fottuti anni zero dei lasciapassare":
    Nel 2009 Alabianca pubblica un libretto che conteneva "21 interpretazioni inedite eseguite al Tenco", tra cui la meravigliosa Roba di Amilcare.
    Tra queste la più lunga (ben quattro pagine) risulta "Attaccami la spina", testo di L. Cherubini e musica (musica?) di L. Cerosimo. Questo spartito è formato da ben 34 righi contenenti sempre e soltanto una non nota sul terzo rigo dal basso. Cioè solo un ritmo.
    In quell'occasione Jovanotti ricevette anche una Targa Tenco (non ricordo in che sezione) ma la cosa mi lasciò perplesso.
    Ora questo. Che dire? Sarà l'età (la mia, quella di Secondigliano Sacchi)?
    Ciao,
    Francesco Pazzi

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