Corde Oblique – The Moon Is a Dry Bone (Dark Vinyl, 2020)

“The moon is a dry bone”, ultimo album dell’ensemble napoletano Corde Oblique, si aggiunge a una ricca discografia che, in termini generali, si pone a mezz’aria tra folk e sperimentalismo. Le atmosfere evocate in questo nuovo lavoro sono molto profonde e raffinate. Il suono è sempre pieno e presente, sia nei brani più spinti che in quelli più dilatati. Ogni strumento è incastonato con una perfezione certosina dentro la struttura timbrica degli undici brani in scaletta: il timbro è primariamente acustico. In questo quadro emergono in modo più netto fisarmonica (Carmine Ioanna), violino (Edo Notarloberti) e chitarre (Riccardo Prencipe), accomunati dallo scopo primario di fare melodia e impreziosire un flusso musicale delicato e trascinante. La chitarra - classica, acustica ed elettrica - assurge spesso a voce principale, assestata sia su registri melodici che ritmici. Si nota, in questo caso, che è lo strumento suonato da Riccardo Prencipe, autore e musicista raffinato e, come è noto, anima del progetto Corde Oblique. La bellezza dell’album si evince, però, non solo nella presenza del suo strumento, ma nel modo in cui è stato organizzato lo spazio entro il quale con questo dialogano tutti gli altri: oltre ai già citati, basso (Umberto Lepore), batteria (Alessio Sica), tamburi a cornice e percussioni (Michele Maione) e pianoforte (Luigi Rubino). E poi ci sono alcuni imprescindibili inserti vocali, dai quali si viene rapiti per sempre, con la forza del grande lirismo e delle grandi aperture armoniche. In quest’ultimo caso mi riferisco a tutti i brani in cui compaiono le splendide voci di Rita Saviano, Caterina Pontrandolfo, Denitza Seraphim, così come quelli con Andrea Chimenti, Sergio Panarella, Miro Sassolini e Maddalena Crippa. Insomma il quadro è articolato e, volendone dare una rapida interpretazione, direi che è estremamente suggestivo. La sua forza principale risiede negli elementi più importanti del processo di creazione musicale: l’immaginazione e la scrittura, quindi l’ispirazione convogliata dentro una rappresentazione, un linguaggio preciso, scelto, l’esecuzione, quindi (anche) gli arrangiamenti e il lavoro d’insieme, il timbro e, in generale, la produzione. Una breve osservazione su quest’ultimo aspetto. Leggo nelle note il nome Abbay Road Studio, dove il disco è stato masterizzato, dopo essere stato registrato e mixato da Massimo Alluzzi agli Splash Studio di Napoli (rimanga fra parentesi: sebbene non sia in grado di dire tecnicamente in quali termini, non riesco a non soffermarmi a pensare che sia un valore aggiunto, comprendendo che far approdare un album ad Abbey Road suggelli, non solo simbolicamente, la qualità di ciò che contiene). La scrittura dei brani rimane al centro di tutte le esecuzioni: ne definisce la forma fino in fondo, ne regola gli spazi, l’intensità. Così la chitarra, in un brano come “Le grandi anime” (cantato da Caterina Pontrandolfo), guida un andamento sognante e allo stesso tempo caparbiamente descrittivo. A primo acchito la metrica della voce è disorientante, ma tutte le melodie che si intersecano nel brano riescono gradualmente a sostenere un racconto intenso e denso. Nell’incipit la chitarra sembra voler disperdere dei brevi brani melodici, che gli altri strumenti raccolgono e amalgamo con forte empatia, stringendosi intorno alla voce piena e sognante. Nel brano successivo, “Le torri di Maddaloni”, l’introduzione è ancora affidata alla chitarra, delicata e squillante. Appena prima dell’ingresso della voce (a cantare qui è Denitza Seraphim), si crea però un’atmosfera diversa, meno rarefatta, raccolta in un impianto ritmico poderoso, in cui le percussioni e i tamburi seguono un andamento cadenzato ma melodico, in sintonia perfetta con le armonie vocali e le corde. Tra i brani migliori vi è “Herculaneum”, un brano posto quasi in chiusura. Il testo è fiabesco e, insieme alla melodia portante, ricorda una scrittura “progressiva”. Il testo musicale è straordinario, perché tutti gli strumenti sembrano accennare delle melodie, senza abbracciarle fino in fondo, sostenendosi l’un l’altro dentro un andamento incessante, circolare e, allo tesso tempo, indefinito. 


Daniele Cestellini

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