Paolo Ciarchi – Cent’anni di moltitudine (Archivi della Resistenza/Istituto Ernesto de Martino, 2019)

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Geniale musicista, cantante e performer, Paolo Ciarchi era, senza dubbio, uno degli artisti più originali emersi nelle fila del Nuovo Canzoniere Italiano di Roberto Leydi e Gianni Bosio, non solo per la sua capacità di vitalizzare e far risuonare qualsiasi cosa passasse attraverso le sue mani, ma anche per quella costante tensione ad andare oltre l’improvvisazione e raggiungere la creazione istantanea a tutto campo. Tutto questo lo si coglie solo in parte nei dischi e nelle colonne sonore da lui firmate, ma era sul palco - durante i suoi irripetibili spettacoli - che dava il meglio di sé. Meneghino d.o.c. del quartiere di Brera, classe 1942, Ciarchi mosse i primi passi come musicista suonando nei locali di cabart dove ebbe modo di stringere amicizia con Cochi e Renato e collaborare con Enzo Jannacci. Dopo essere entrato nel Nuovo Canzoniere Italiano nel 1964, ben presto ne diventò uno degli elementi di punta, prendendo parte alle ricerche sulla musica popolare italiana e ai principali spettacoli come le repliche di “Bella Ciao”, “Pietà l’è morta” nel 1964 e “Ci Ragione e Canto” nel 1966 per la regia di Dario Fo. Proprio durante una pausa dalle prove di quest’ultimo, prese vita “Ho visto un re” con Fo che dal suo cilindro tirò fuori la strofa, a cui replicò Carpo Lanzi del quartetto di Piadena: “se l’ha vist cos’è?”. In parallelo, prese parte a larga parte delle produzioni discografiche de “I Dischi del Sole”, oltra a mettere in fila numerosi spettacoli al fianco di Paolo Pietrangeli, Gualtiero Bertelli, Alberto d’Amico, Rudi Assuntino e Ivan della Mea con il quale strinse non solo una grande amicizia ma ne diventò il principale collaboratore. Chiusa la partentesi con il Nuovo Canzoniere Italiano, a partire dagli inizi degli anni Settanta, Ciarchi cominciò a studiare l’improvvisazione e il rumorismo con l’impegno di oggetti di uso comune (sedie, tubi, nastri e utensili vari impiegati come percussioni e strumenti a fiato) e a frequentare la scena jazz e quella della musica sperimentale incrociando il suo percorso con Paolino Della Porta, Riccardo Luppi, Riccardo Fassi e Attilio Zanichi e prendendo parte al tour Re Nudo insieme agli Area e Il Volo. Negli anni successivi, la sua attività si indirizzò verso la composizione di colonne sonore per i documentari della RAI, il cinema, sonorizzando alcuni film muti e non per la Mostra Internazionale del Cinema di Venezia nel 1981, e per il teatro con le produzioni per il Teatro Pierlombardo (oggi Teatro Franco Parenti). Le esperienze accumulate in questo articolato percorso artistico furono la base creativa per il famoso spettacolo “Microconferenza di musicologia applicata” nel quale Ciarchi spaziava dall’utilizzo del corpo come cassa di risonanza alle tecniche di respirazione del cantante, per soffermarsi sul popolo Yanomami dell’Amazzonia o temi come la musica improvvisata, la rivoluzione e la filosofia chiarchiana che ruotava intorno al concetto di trialettica che superava quello della dialettica. Se indimenticabili restano i suoi spettacoli al fianco di Ivan Della Mea e Claudio Cormio, al pari imperdibili erano le performance in cui emergeva la sua visione della musica che poteva nascere da ogni oggetto di uso comune. Negli ultimi anni, oltre ad animare la rinascita del Nuovo Canzoniere Italiano, aveva collaborato anche con Andrea Labanca e Alessio Lega, tuttavia non riuscì mai a pubblicare un disco a suo nome. A colmare questo vuoto è “Cent’anni di moltitudine”, disco realizzato dall’Istituto Ernesto de Martino e dagli Archivi della Resistenza di Fosdinovo e curato da Alessio Lega, Claudio Cormio e Rocco Marchi, i quali hanno raccolto numerosi materiali tanto rari quanto preziosi, dando vita ad una vera e propria autobiografia in musica. Non è un caso che il titolo rimandi all’affermazione dello stesso Paolo Ciarchi che alla domanda su come si sarebbe intitolata una sua possibile autobiografia rispose: “altro che Cent’anni di solitudine… la intitolerei Cent’anni di moltitudine”. Pensato dopo la sua scomparsa avvenuta il 16 maggio 2019, il disco raccoglie ventisei tracce che rappresentano la preziosa occasione per riscoprire la straordinaria ricchezza del percorso artistico del musicista milanese. Aperto dallo scioglilingua “Caidrop cipcermak” a cui Ciarchi era particolarmente affezionato, l’album mescola frammenti di una lunga intervista rilasciata ad Alessio Lega, e composizioni che abbracciano le varie collaborazioni che hanno costellato la sua carriera da quella con Dario Fo (“Ho visto un re”, “Saltarelli”, “Quella sera cascava Pinelli”, Il comandante della mia banda” e “La Gap”) a quella con Ivan Della Mea (“Lenin’s Rock” e “Piccolo Uomo” per giungere a “Una cosa già detta (Questo mio amore di F. Amodei)” e “Ora si che siam contenti”. Chiudono il disco due brani che, riascoltati oggi, acquistano un significato profondo “La rivoluzione la vincerà” e “La fine della tempesta” in entrambe, infatti, non c’è la rassegnazione della disillusione ma piuttosto la convinzione di portare avanti le proprie battaglie. Ad accompagnare il disco è un curatissimo libretto con molti materiali rari ed inediti e gli interventi di Alessio Giannanti e Simona Mussini degli Archivi della Resistenza che, in apertura, ricordano la lunga collaborazione con Ciarchi; Stefano Arighetti, presidente dell’Istituto Ernesto de Martino, con il contributo dal titolo “Paolo e noi” in cui viene raccontata la partecipazione del musicista milanese al film “Tutta colpa di Giuda” di Davide Ferrario; ed, infine, Alessio Lega che racconta il lato più intimo di Ciarchi che lo vedeva indifferente alla ricerca del successo e convito della scelta di stare da un lato preciso della barricata. Insomma “Cent’anni di moltitudine” è un disco da conservare gelosamente e con esso la memoria della vitalità artistica e politica di Paolo Ciarchi.


Salvatore Esposito

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