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Foto di Riccardo Ghilardi |
#BF-CHOICE
Quando questa intervista è stata realizzata - nei bei locali di Officina Pasolini, la scuola di Alta Formazione per giovani artisti della Regione Lazio che Tiziana “Tosca” Donati gestisce da qualche anno a Roma, vicino al Ministero degli Affari Esteri - l’ipotesi “Sanremo” era ancora lontana. Nel finale si è parlato molto di omologazione, di libertà e di assunzione di responsabilità. La storia personale di Tosca mostra innanzitutto questo: l’onestà intellettuale di una grande artista che sa seguire la propria strada con consapevolezza, coraggio e coerenza, portando sempre se stessa e non quello che qualcuno si aspetta da lei. Per questo risulta essere un esempio: chi crede che solo seguendo nella vita dei percorsi omologati e brevi si possano raggiungere grandi obiettivi sbaglia e di grosso. Tosca - dopo un percorso live in giro per il mondo (e incontri con grandi artisti di calibro internazionale) che ha portato alla realizzazione di un Documentario, per la regia di Emanuela Giordano, dal titolo “Il suono della Voce” e dopo due anni durante i quali ha costruito insieme con i suoi musicisti e la produzione di Joe Barbieri l’album Morabeza - ora torna al Festival della Canzone Italiana. Non sappiamo nulla del brano in gara, ma abbiamo la garanzia che comunque andrà sul Palco dell’Ariston, riusciremo ad ascoltare con lei ciò che noi intendiamo quando parliamo di musica di qualità.
Se guardo al tuo lavoro, a Morabeza, ma anche ai dischi precedenti che hanno portato al “Suono della Voce, il documentario”, il mio pensiero va subito alla forza del linguaggio musicale.
La musica crea ponti. Basta gettarli! Sai come quando, da ragazzini, vedevamo che nei cartoni animati venivano gettati i ponti a scaletta e ci si saliva per andare dall’altra parte? In realtà va proprio così se ci si lascia andare alla potenza della musica e allo stesso tempo alla sua semplicità. Perché la musica è così: un mezzo allo stesso tempo semplice e potente.
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Foto di Riccardo Ghilardi |
Ed è un incredibile passepartout. Personalmente posso dire di essere arrivata, grazie alla musica, dove mai sarei potuta arrivare con un qualsiasi management, con un ufficio stampa, con un sistema tecnico-organizzativo: molto probabilmente tante anime artistiche non mi si sarebbero aperte, se non avessero sentito naturalezza. Per esempio, mi ricordo che quando ho iniziato il percorso del “Suono della voce, il documentario”, agli artisti che sono stati coinvolti per prima cosa mandavo una canzone, dicendo: “vengo nel tuo Paese, sono un’artista e mi presento così: questa sono io, questa è la cosa che mi piacerebbe condividere con te”; il mio era un dono musicale. Così le nostre esperienze si sono intrecciate.
Da un capo all’altro del mondo…
Sì, proprio perché non siamo in Italia: stiamo parlando di Brasile, Portogallo, Francia, Africa (Tunisia, Algeria…); in qualche maniera noi siamo un po’ involuti culturalmente e l’involuzione porta alla plastica, all’organizzazione ferrea che rende l’artista distante e anche quindi meno artigiano. All’estero questa cosa si vive meno; magari un po’ a Parigi e con i francesi… in fondo sono un po’ nostri cugini, no? Ma anche lì, sull’inarrivabilità dell’artista noi siamo campioni mondiali. Invece all’estero, quando approcci in maniera diversa e diretta artisti che ti somigliano, allora le porte si spalancano. Non solo: c’è proprio voglia di abbracciarsi musicalmente, di condividere, di far nascere qualcosa di nuovo. E questo è successo naturalmente, con tutti gli artisti che hai visto nel documentario e che sono stati coinvolti nell’album; il disco è scaturito dal documentario ed è stata una cosa di certo faticosissima, ma l’approccio è stato naturale e credo che i risultati siano stati altrettanto naturali. Io parlo sempre di “potenza della semplicità”.
Tu sei sostanzialmente una interprete, però questi due lavori e l’intero progetto che li vede insieme ha un forte sapore di autoralità e di poetica femminile. Una cosa che mi ha molto colpita è il passaggio in cui – nel racconto – si parla delle cure a cui Giovanna Famulari, la straordinaria violoncellista che ti accompagna, si sottoponeva durante le tournée e la notizia del trapianto risolutore, giunta proprio alla fine di questo vostro percorso di condivisione e solidarietà. È un passaggio affrontato poeticamente e delicatamente; ho pensato, vedendolo, che non poteva che nascere dal cuore di una donna.
Beh, innanzitutto la regia del documentario è di Emanuela Giordano, una donna, appunto. Il fatto che noi fossimo in giro e che purtroppo molte volte al mattino Giovanna si assentasse per le sue cure ci colpiva molto: è una cosa che abbiamo vissuto insieme.
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Foto di Riccardo Ghilardi |
Spesso il mondo omette di considerare l’essere umano, come se di certe cose non si dovesse parlare. Invece ci siamo detti che quella è la vita, che la malattia ci riguarda e quindi non aveva senso ometterla. Nel documentario abbiamo raccontato uno spaccato di vita durato tre anni dove tutto riguardava tutti: me e i miei collaboratori. E loro sono me: io detesto la scala gerarchica; senza di loro non sarei quella che sono e spero che sia un po’ così anche per loro. Quella storia è stata una nostra costruzione comune. E quindi Emanuela, donna che ha molto a cuore le donne, ha avuto l’intuizione di mettere questa cosa nel finale e Giovanna è stata d’accordissimo.
Per questo parlo di poetica femminile. Le donne sono attaccate alla Terra e ne sanno fare poesia.
Le donne, quando non sono strumentalizzate, sono belle: siamo belle. Non da oggi, ma negli ultimi venti, trenta anni mi sembra, povere ragazzine, che non si sia investito molto sulle capacità cognitive, sull’anima, sulla condivisione. Si è investito sul corpo, che però è una merce deperibile. Basta che pensi alla storia del costume in Italia, a certa politica televisiva, a tanto svilimento dell’essere femmina. E intanto pensa pure a tutte le donne ammazzate… ti rendi conto?
Come no!
Ecco, io spero che il nostro lavoro sia andato in altra direzione e in modo naturale. Per questo progetto ho avuto un gruppo formato da quattro donne e un uomo… tra l’altro le sorelle Salvucci sono due bellissime ragazze e Giovanna una bellissima donna. Ora io non mi incenserò da sola..
Tosca con Joe Barbieri - Foto di Giovanni Canitano |
Lo faccio io: tu sei una bellissima donna.
E però il nostro messaggio è stato: “non potete capire quanto siamo state bene, quanto proprio l’essere donna con donna è stata una cosa bella e poetica” e sia alla fine diventato un disco.
Ed è proprio quello a cui volevo arrivare. Si sente. Ovviamente non mancano gli uomini.
Le anime maschili sono state importantissime, a partire da Joe Barbieri.
La musica di Joe Barbieri ha una tale eleganza, una delicatezza, una raffinatezza talmente non scontata, che il coinvolgimento in Morabeza è perfetto. Come è andata tra voi?
E io l’ho scelto apposta; con Joe ci conosciamo da sempre, ma intorno al 2012 abbiamo cominciato anche a a collaborare insieme, abbiamo cominciato piano piano ad annusarci. La cosa bella di Joe – a parte essere un artista clamoroso – è che ama il mondo femminile. Tanto. Lo osserva, non è mai prepotente anche quando non è d’accordo con te. Mi è capitato: tanti produttori mi hanno trattata male in passato e invece lui no. Mi diceva: “Pensaci, se non lo vuoi fare non lo facciamo ma pensaci, perché secondo me questa cosa ti sta bene addosso;” è quella delicatezza nel dire le cose che ti ci fa pensare davvero. Come quando arriva la mia amica Valentina e mi dice: “Pensaci un attimo a questa cosa” e io alla fine ci penso. Ecco, con Joe è andata così e non sai quante cose abbiamo cambiato, tagliato, cucito, ripreso. Ci abbiamo messo due anni, non ne potevamo più (ride).
E oltre a tutto questo, nell’album ci sono collaborazioni – ne abbiamo già accennato – straordinarie.
Sì… e poi tutte queste condivisioni con artisti stranieri! Per esempio Ivan Lins ha cantato in italiano, perché quando glielo ho chiesto, mi ha risposto: “Sì ma se mi fai cantare in italiano, sennò no!” (ride) perché non era mai accaduto; Luisa Sobral mi ha scritto una canzone inedita e quando le ho chiesto l’intervista per il documentario si è presentata da sola, col marito e i figli, al parco, con grande naturalezza.
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Foto di Riccardo Ghilardi |
Marisa Monte è arrivata, ha suonato la porta e io non l’ho nemmeno riconosciuta e sai perché? Perché immagini un artista italiano che deve fare un’intervista per un documentario e che si presenta senza uffici stampa e “tutto il cucuzzaro”? E invece lei era lì, dall’altra parte della porta, con i suoi occhialetti e io pensavo fosse la segretaria: mi sembrava inconcepibile non fosse arrivata con dieci persone al seguito. È arrivata, abbiamo messo una sediolina in terrazzo, abbiamo chiacchierato due ore, ha cantato, parlato, le sono piaciuti i miei orecchini, glieli ho regalati e lei era felicissima. Un altro così è stato Rogê, che la sera prima era a cena con Vincent Cassel, aveva fatto una cosa con Gilberto Gil e poi è venuto da me tranquillo chiamandomi: “amica”.
Una volta i diplomatici di un mondo più antico del nostro formavano una comunità internazionale che si “riconosceva”. Mi hai fatto pensare a questo: io credo semplicemente che quello che è accaduto e che racconti sia normale: voi siete una comunità di artisti e come tale è una comunità internazionale. E vi siete riconosciuti. Non credi?
Sì, brava, è proprio così, solo che in effetti se a dirlo sono io può sembrare una presunzione. Però è vero. Le persone ti riconoscono, ti odorano e quindi ti dicono di sì. Un altro così è Gabriele Mirabassi. Questi sono musicisti che danno il sangue per quella che è una missione. È stato tutto bello davvero. E tutto naturale.
Tornando al disco, immagino che la scelta dei brani sia stata complessa.
È durata due anni: levavo, mettevo, levavo, mettevo… Tutto è nato da “Giuramento”: dovevo andare in Brasile e ho chiesto a Joe di farmi l’adattamento. Non era facile ma lui l’ha fatto.
Tosca e Joe Barbieri - Foto di Giovanni Canitano |
Io ho testato il brano al Blue Note di Rio de Janeiro. È stato un grande successo. Dieci minuti di applausi.
A proposito di questo, è vero che all’estero – parlando di pubblico - c’è un approccio molto meno supponente?
Ma non solo: soprattutto c’è un approccio! C’è ancora la gente che fa la fila per comprare i biglietti pur non conoscendo l’artista; c’è curiosità culturale.
Secondo te perché in Italia non è così?
Credo dipenda dalla televisione. E credo che anche noi artisti abbiamo una bella responsabilità. Soprattutto quelli che potevano invece essere degli esempi. Noi non possiamo parlare di buona politica e cattiva politica se per primi poi facciamo cattiva cultura. Se la politica televisiva ha creato un mondo di vincitori e perdenti, un mondo di profitto, un mondo fatto di “funziona o non funziona”, “spacca o non spacca”, automaticamente gli artisti sono andati dietro e si sono adattati. E però poi non ci possiamo lamentare se abbiamo contribuito a generare plastica. Oggi all’estero, in Brasile, in Tunisia, in Portogallo, le cose più temute sono la musica e l’informazione. In Italia l’informazione è diventata invece una forma di spettacolo. Non pensare che io sia arrabbiata, ma un po’ stanca sì. L’artista deve sempre mantenere la sua dignità e cercare di essere un esempio. Non puoi diventare un qualunquista. E deve esserci una politica culturale che aiuti i ragazzi nei Club, che faccia uscire le persone da casa.
È un discorso fondamentale che bisognerebbe approfondire a fondo. Però dobbiamo tornare al disco. Mi piacerebbe che raccontassi ai lettori del nostro giornale la storia legata alla versione di “Serenata di Paradiso” anzi, di “Serenade de Paradis”.

Ti ho chiesto di questa canzone perché descrive bene l’atmosfera del disco, che si muove in modo equilibrato tra tradizione e cosmopolitismo. E uso questo termine antico di proposito, perché l’aggettivo “globale” oltre che essere brutto, qui risulta davvero fuori luogo. E ora questo lavoro lo consideri un punto di arrivo o è solo una sosta alla stazione di posta? Prosegui in questa direzione o cambi strada? Dove va Tosca?
Sai che non lo so? In realtà non ho mai avuto la sensazione… o meglio ho sempre avuto la sensazione di guidare io ma che poi in realtà fosse la musica ad essere davvero alla guida. È una cosa strana quella che ti dico, soprattutto quando di mezzo ci sono le radici che ti portano anche a livello inconscio in luoghi che non conoscevi; hai delle idee che mai avresti pensato un giorno di avere. La musica è il mio grande amore. Tu sai che questa è croce e delizia dell’artista che per prima cosa ama la sua arte.

Ti riavvicineresti al pop da artista indipendente?
Non lo so: bisognerebbe capire di che cosa si tratta; per esempio trovo scandaloso che oggi non ci sia un pop d’autore. Viviamo in una società dove il cinema deve far ridere e basta, a teatro deve esserci la star delle fiction altrimenti non se ne fa niente, la musica deve essere leggerissima e non ti deve far pensare. Gli arrangiamenti sono tutti uguali. Sai dove ho sentito cose diverse ultimamente? Al Premio Parodi e al Premio D’Aponte. Intanto lì ho visto suonare altri strumenti, magari una ghironda. Perché non utilizzare una ghironda in un pezzo pop? No. Ci deve essere per forza l’omologazione: se tutti fanno così, dobbiamo fare così. E invece bisogna insegnare che se tutti fanno così, tu puoi fare colà. È un discorso lungo che chiederebbe un’altra ora di intervista. Posso però dirti che oggi ai ragazzi non viene insegnato che si devono assumere delle responsabilità. Hanno paura di essere i numeri uno. Meglio essere il numero due: è più rassicurante. La libertà è poter decidere cosa fare, ma è, appunto, una responsabilità.
Tosca – Morabeza (Leave Music/Officina Teatrale, 2019)

Emanuela Giordano – Il Suono della voce, Il documentario da un’idea di Tosca (Leave/Rai Cinema, 2019)

Elisabetta Malantrucco