Sahra Halgan – Waa Dardaaran (Buda Musique, 2020)

Lo sguardo rivolto al Corno D’Africa è una delle prerogative dell’etichetta discografica Buda Musique, nota per aver realizzato la collana “Éthiopiques”, curata dal musicologo Francis Falceto. Restando in Africa orientale, la label francese allarga il colpo d’occhio sull’attualità di una scena musicale meno visibile, licenziando il terzo album della carismatica e iconica voce originaria di uno dei territori più segnati del continente, il Somaliland (ci siamo già occupati del precedente “Faransiskiyo Somaliland”), lo stato indipendente privo di riconoscimento politico internazionale, composto dalle province settentrionali della Somalia (in epoca coloniale erano un protettorato britannico) sulla costa meridionale del golfo di Aden. Halgan, “La combattente”, è l’appellativo che la cantante si guadagna quando, da improvvisato paramedico, è al fronte durante il conflitto indipendentista negli anni Ottanta. Sempre in prima linea, Sahra canta per sostenere la lotta e il morale degli insorti. La fase successiva all’autoproclamazione della Repubblica del Somaliland (1991) si caratterizza per lotte politiche interne, che la costringono a raggiungere la Francia per chiedere asilo politico. Sahra è la nipote del cantante e poeta Hilaac Dheere, ma, di fatto, quando da adolescente ha intrapreso l’attività di musicista ha dovuto sfidare convenzioni sociali e ostracismo del clan Issa cui appartiene. Qualche anno fa è tornata nel suo paese per fondare il collettivo Hidda-Dhawr, luogo d’arte e cultura nella sua città natale, la capitale Hargeisa. Oggi la sua vita artistica si divide tra madrepatria e Francia dove, ai Back to Mono Studios di Lione, ha inciso “Waa dardaaran”, il cui titolo riprende una forma di saluto cortese rivolto ai potenti e alle persone rispettabili, ai quali si rivolge - accade in “Dardaaran” - invitandi, soprattutto i politici, a onorare le promesse fatte e a rispettare tutti i gruppi sociali. Questo terzo lavoro, prodotto da Christian Hierro, possiede un profilo musicale internazionale, con le melopee somale di struttura pentatonica innervate da riff chitarristi che guardano al versante sub-sahariano del continente, da ritmiche rock e funky, puntellate da una tastiera retrò. Accanto a Sahra, troviamo la coppia di affiatati collaboratori: Maël Salètes, chitarrista francese (già con Maczade Carpate e Orchestre Tout-Puissant Marcel Duchamps) e il batterista franco-maliano Aymeric Krol (del BKO Quintet), ai quali si è aggregato il tastierista Graham Mushnik. Il repertorio firmato da Sahra e dal suo trio propone liriche di poeti di lingua somala (Magool, Mohamed Adani, Khadra, Isman Jon e Mohamed Mohamoud Ige) - il solo “Durdur” è di derivazione tradizionale - ricche di metafore incentrate sui risvolti dell’amore e piene di orgoglio patriottico con cui celebrare la ricostruzione del Somaliland. “Kiidhaba”, la potente traccia d’apertura, presenta stilemi rock saheliani: qui il vero amore è paragonato alle radici di un albero che non cede alle intemperie. In “Hiddo”, Sahra si propone in una grande performance canora, cantando la riconoscenza alla Francia, accogliente terra d’esilio. La tastiera dal piglio psichedelico di Mushnik caratterizza tanto questo brano quanto i successivi “Xarago” e, soprattutto, “Talo”, uno degli highlight dell’album, che punta tutto su una chitarra tagliente, un sodo sostegno ritmico e il canto possente che si produce pure nelle tipiche sequenze di emissione ululata. I tempi medi del tradizionale quaarami (“Dur Dur”), definito una sorta di blues locale, di solito eseguito in coro dagli uomini, raccontano di un amore impossibile da trovare, mentre negli sprazzi di umore rhythm & blues di “Caaqil” l’amore è comparato alla bellezza del paesaggio primaverile. C’è, poi, “Massalo”, dove si dispiega il canto in forma di call & response. Irresistibile l’incedere di “Daardaraan”, ancora con chitarre westfaricane, “Alaah”, invece, porta un sentimento di gioia e fede espressi con una preghiera per i tutti i suoi fratelli e sorelle. Ci buttiamo nel funky groove di “Dhesha Dheshu”, che parla di seduzione della danza fino ad approdare al lamento dell’amante, ascoltato in “Bayr”, conclusivo tema dalla forza malinconica. Un disco posizionato sul sentiero world propenso all’apertura verso un pubblico più vasto di quello aduso alle musiche del mondo. Ad ogni modo, sono storie sincere d’amore assoluto, portate da una donna che con il suo vissuto a pieno diritto esprime la passione per la sua terra.  



Ciro De Rosa

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