Musa Mboob, percussionista, cantante e danzatore gambiano ma residente nel sud dell’Inghilterra, figlio d’arte (suo padre è il maestro di percussioni Doudou Mboob), musicista dalle illustri collaborazioni, tra cui quelle con Africa Express, Alan Skidmore, Roger Watson e Billy Bragg, è la mente del progetto “The Gambia Sessions”. Mboob si è posto a capo del gruppo afro-britannico XamXam (Tom Phelan alle tastiere, Luke Ratenburry alla chitarre elettrica e Tom Fairbairn al basso), con cui è tornato a casa, nella città natale di Serrekunda, posta sulla costa oceanica, per incidere un disco davvero accattivante. Al quartetto base si affiancano quattro ospiti (a cori, seconda tastiera, sax tenore, flauto e clarinetto).
“The Gambia Sessions” si compone di dieci tracce, nelle quali si rintracciano e si assommano la coralità afro-occidentale di “Tumaranke” e “Jahalnama”, la propulsione in levare di “Chossan”, una canzone sul retaggio culturale, e l’animato soukous di “Butum Belle”, con la chitarra di Rattenbury in bella mostra. “Yarabi” (“Pace”) è una gustosa canzone di otto minuti impregnata di umore jazzy; ammalia pure il deciso call& response di “Ndoliwo Ndoli”. Dietro il vincente groove di “Jarindarey”, con organo e percussioni al top, si parla dei documenti da tenere in ordine per acquisire i bisogni essenziali per vivere in Occidente. Pure “Silafandor” è un numero di spessore: si tratta di un canto alla gentilezza e alla comprensione dagli stilemi afro-funk-jazz, con liriche in lingua mandinka. Le due bonus track finali, “Samina” e “Journey”, di energica impronta afro-urbana, datano 2010. Il primo apre uno spaccato sul mondo dei pastori, il secondo è ancora improntato all’incontro a “cuore aperto” con gli abitanti dei villaggi.
Altro inglese in viaggio nell’Africa saheliana è il musicista e produttore Dan Harper, il cui suo moniker è Invisible System, già titolare dell’album “Bamako Sessions” (Riverboat, 2018) e di precedenti incursioni nella musica etiopica. Stabilitosi nella capitale maliana, dove si è pure accasato, Harper (basso, chitarra, sintetizzatori, batteria, programmazione, registrazione e editing) persegue nell’intento di dare vita a una intensa session con musicisti locali in cui canto e melopee tradizionali interagiscono con elettronica, dance e afflato da rocker. Oltre alla notevole voce di Astou Niamé Diabaté (legata alla celebre schiatta griot dei Diabaté) c’è un cast di almeno una dozzina di dotati musicisti locali che cantano e suonano (chitarra, ngoni, tama, balafon, calabash, kora, djun-djun, djembe).
La visione psichedelico-futuristica di Harper non funziona interamente e la compattezza della tracklist mostra qualche cedimento. Tende a prevalere la matrice rock ed elettronica, cui non mancano assalti rappati (“Kélé” vede la partecipazione della celebrità hip hop locale Penzy), sebbene l’elemento tradizionale maliano non sia certo messo in soffitta, anzi quando prende il sopravvento, alza l’asticella della qualità. In “Bajura”, il brano d’apertura, vola il canto di Astou, mentre subito dopo c’è “Toungaranke”, dove le pulsazioni rimiche R’n’B si fondono con riff di chitarra elettrica. Massiccia l’elettronica di Ebah”, in cui duettano alla grande Astou e Sambou Koyaté (scomparso improvvisamente poco prima della pubblicazione del disco in un incidente, così come se n’è andato il giovane polistrumentista Banjoungou Koyaté). Superate le tracce quattro e cinque e il già citato “Kéle”, si approda a una delle composizioni più tradizionali del disco, “Zani”, segnata dalla superba chitarra di Banjoungou. Un altro chitarrista di rango è Kalifa Koné (in passato accanto alla diva Oumou Sangaré e a Salif Keita) che ci mette tecnica e ispirazione nella luminosa “Barana”. In fondo a tutto c’è la title track, altro caposaldo del progetto fusion del Sistema Invisibile.
Ciro De Rosa
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