Lucero – Among the ghosts (Liberty & Lament/Thirty Tigers, 2018)

Tornano a farsi sentire i Lucero con questo splendido album, il cui titolo, “Among the ghosts”, non lascia spazio a fraintendimenti. Si parla di immagini profonde, di fantasmi e spiriti di vario tipo, raccordati dentro un suono pieno e perfettamente cesellato. Meno tradizionale ma più forte e maturo. D’altronde stiamo parlando di veterani del sound alternative country che, nell’arco di circa venti anni, riesce a far comprendere con estrema chiarezza il “suo” stato dell’arte e, insieme, la direttrice seguita da Ben Nichols, cantante, chitarrista e autore di tutti i brani dell’album. La band di Memphis - e che a Memphis, nel leggendario studio di Sam Philips, ha registrato l’album - sembra addirittura capace di dispensare i giusti consigli a chi, dentro il pantheon affollatissimo delle (“roots oriented”) musiche americane, cerca dei nuovi appigli e (detto più propriamente) una nuova forma interpretativa. Una forma, cioè, che non perda la carica espressiva della tradizione a cui si ispira, ma che sia capace di leggere più a fondo, e con maggior senso critico, le possibilità che oggi può offrire. Nichols su questo non ha molti dubbi. Nei mesi scorsi, in qualche intervista, si è lasciato sfuggire qualche immagine che rimanda chiaramente al suo approccio attuale (possiamo ricondurre molto della sua scrittura all’età, alla famiglia, al rodaggio della sua osservazione, insomma all’esperienza vissuta di chi scrive e canta ciò che è e ciò che vede e sente). Allora, i “ghosts” divengono non meno spettrali (nel senso di meno inquietanti) ma senza dubbio meno incomprensibili. E assumono gradualmente i tratti delle esperienze di tutti, la forma meglio aderente alle trasfigurazioni attraverso le quali riusciamo a pensarli, immaginarli e affrontarli. Il sestetto che attualmente compone i Lucero propone sostanzialmente questa soluzione musicale, convergendo su una serie di immagini coerenti con la storia del gruppo. E mantenendo un’alternanza molto bilanciata tra quella prospettiva di cui dicevo prima e l’affezione al suono che li ha resi ciò che sono. Ascoltando l’album - co-prodotto da Matt Ross-Spang - ci si rende conto che ogni strumento è imprescindibile e che, nonostante la preminenza delle chitarre, è il sound complessivo (sempre pieno e sicuro, sia sul piano del timbro che degli arrangiamenti) che fa veramente la differenza. A volte, ad esempio nell’incedere della batteria della title track, si riconoscono i richiami a un ritmo reiterato e ipnotico che spinge la band in uno spazio sonoro “perfettamente” contemporaneo. Ma, anche in questo ambito, gli altri suoni riconducono il flusso musicale proprio dentro i Lucero. In quello spazio, in quell’insieme di informazioni, inequivocabile, dove la voce roca di Ben Nichols trascina tutti gli strumenti, e le chitarre elettriche (che intervengono con suoni riconoscibilissimi pur in un quadro di variabili molto piacevoli) sostengono ritmo e melodia. Insomma (lasciatemi dire), non è un caso che la band sia un’istituzione riconosciuta a Memphis e che (come abbiamo visto), nell’album compaiono i nomi di alcuni dei pilastri (di ieri e di oggi) della musica americana. Le variabili delle chitarre hanno un riflesso diretto sulle articolazioni complessive della scaletta, la quale si presenta allo stesso modo coerente e differenziata al suo interno. Soprattutto attraverso l’alternanza di brani più “tiepidi”, anche se spesso spigolosi (come “Everything has changed”), brani “dilatati” in forma di ballad (come “Always been you”), in cui il ritmo immobile e cadenzato della batteria si annoda alle linee melodiche del piano e agli accenni distorti e sospesi della chitarra, e brani più “ruvidi” (come “Back to the night”), in cui la voce parla e richiama un mondo intero di racconti, di visioni e di paesaggi notturni. Il ritmo spinto torna con la conclusiva “For the only ones”, canzone tutta di un pezzo, dal ritmo dritto e inflessibile: un epilogo perfettamente incastrato nella narrativa dell’album. Una canzone che è una sospensione, uno sguardo al futuro attraverso il passato. 


Daniele Cestellini

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