Barbara Buonaiuto – 8 Canzoni (Aquadia/Marocco Music, 2019)

Nota al grande pubblico per essere la voce femminile solista dell'Orchestra Italiana, con la quale ha inciso sei album e si è esibita in tutto il mondo, Barbara Buonaiuto vanta un altrettanto articolato e ricco percorso come solista con numerosi progetti all'attivo tra cui il fortunato spettacolo "Il brigante e la sciantosa", portato in scena tra il 2013 e 2014, con testi dello scrittore Maurizio De Giovanni e la partecipazione dell'attore Giuseppe Zeno. "8 canzoni", il primo album a suo nome non è semplicemente un opera prima, ma piuttosto è il coronamento di un cammino, un ritorno ad una dimensione artistica più intima e personale. Frutto di una lunga fase realizzativa alla quale hanno concorso le diverse sensibilità di arrangiatori, musicisti e autori, il disco coglie tutte le sfumature dell'universo femminile visto nella sua complessità tra ritratti di donna, racconti personali, denunce di stringente attualità e dediche appassionate. Barbara Buoniauto approccia ogni brano con passione ed intensità interpretativa, interiorizzando e facendo propria ogni storia, ma soprattutto esaltandone l'aspetto lirico dei testi. Abbiamo intervistato la cantante napoletana per farci dalla sua viva voce questo suo primo album.

Prendiamo il largo partendo da lontano, ci puoi raccontare il percorso artistico che ti ha condotto alla realizzazione di questo disco?
Della mia formazione potrei parlare a lungo, ma molto brevemente mi piace sottolineare come la passione della musica ci sia stata da sempre, sin da piccola e, poi, si è concretizzata dopo una bella gavetta tra i locali di Napoli. E' quello che si fa quando si incomincia a suonare, si attraversano stili differenti, vari generi. Successivamente la mia carriera ha avuto un exploit quando sono diventata la voce femminile solista dell'Orchestra Italiana di Renzo Arbore. E' stata un esperienza che mi ha permesso di appropriarmi delle mie radici napoletane culturali e musicali, perché essendo immersa nella musica tradizionale, a prescindere dagli arrangiamenti che possono piacere o meno, mi ha consentito di riavvicinarmi al mondo dal quale provenivo. Tutto questo mi ha messo davanti a me stessa e mi ha fatto ritrovare fino a riscoprire le mie radici. Durante questa esperienza, ho cominciato anche a riprendere il mio percorso come solista che partiva da lì ma sentivo che stavo cercando qualcosa di più. Così ho cominciato a portare in scena spettacoli miei come "Il brigante e la sciantosa", una autoproduzione impreziosita dai testi di Maurizio De Giovanni, persona che amo profondamente, e che è stato fondamentale per arrivare a questo disco. Questo progetto mi ha dato più consapevolezza e, poi, c'è stato un evento che mi ha avvicinato a Rocco Pasquariello il quale si è mostrato sin da subito molto accogliente e disponibile con me, guidandomi e dandomi consigli preziosi. 
Durante una serata dedicata a Fabrizio De André, è scattata la magia e mi ha chiesto se volevamo cominciare un percorso artistico insieme che si concretizzasse anche in un disco insieme. Era la prima volta che interpretavo un brano di De André davanti ad un pubblico così ampio e questa cosa ha contribuito a mettermi in contatto con questa parte di me

Come si è indirizzato il tuo lavoro di ricerca sulla vocalità in questi anni?
Non ho mai fatto una ricerca di una precisa vocalità, piuttosto ho studiato perché venisse fuori la mia personale vocalità, senza assumere nessuna voce come modello. La cosa buffa è che ho scoperto che per cantare si deve semplicemente respirare. Sembra una banalità ma non lo è. La maggioranza delle persone, tra cui anche me una volta, vive in apnea senza rendersene conto. Il respiro è ciò che ci fa vivere. Non respirare significa non vivere, non essere. Quindi per cantare bisogna semplicemente essere.

Venendo più direttamente alla realizzazione del disco. So che era un progetto che coltivavi da tempo…
Con Rocco Pasquariello e la Marocco Music ci abbiamo lavorato per quasi quattro anni. Un po’ per scegliere le canzoni che realmente mi consentissero di esprimermi, un po’ perché è stato un percorso che ha fatto emergere una nuova me, o meglio, la parte più profonda di me che era ancora sommersa.

I brani del discoseguono il file rouge dell’universo femminile, componendo un affresco articolato in cui ti sei rivista molto…
Come ti dicevo in questo lavoro è emersa una parte di me che era rimasta nell'ombra. Per questo "Otto Canzoni" mi rappresenta molto. Moltissimo. È una interpretazione dell’universo femminile attraverso il mio personale vissuto.

Il primo singolo estratto dal disco è “O' scuro”, un brano introspettivo dall’arrangiamento quasi waitsiano che avvolge la tua interpretazione intensa e riflessiva del testo: “O' scur è nu pensier ca te ten compagnie/’A verità ‘e chi nun po’ parlà ‘E chi vo’ ‘na voce pe’ se fa stutà”…
‘O scuro è la parte buia di ognuno di noi. Quella che non vogliamo accettare, che ci spaventa, ma della quale non possiamo fare a meno perché siamo quel che siamo solo nella completezza, come una medaglia che ha due facce, come lo yin e lo yang. Non c’è oscurità se non in contrapposizione alla luce, e ogni luce genera un’ombra. Per fare questo disco ho affrontato anche la mia oscurità.

"Na carezza" è un brano a cui sei molto legata dal punto di vista emotivo perché è dedicata a Caterina, una tua amica prematuramente scomparsa alla quale hai dedicato anche l’intero disco…
Questa è una delle oscurità che ho dovuto attraversare. Caterina è stata più che un’amica. È la mia sorella d’anima, una metà di me. Quando è morta mi sono sentita amputata.

“L’ammore è ‘na mamma resiste e nun more/s’appiccene ‘e spine e nasce nu sciore”. Nu sciore è una ninna nanna in cui duetti con Marina Moulopulos, è una canzone di una storia sbagliata…
È ispirata alla terribile storia di Carla Caiazzo anche se in realtà parla di tutte le donne. Non c’è donna al mondo che non abbia subito almeno una volta una violenza da un uomo. Una molestia, una calunnia, una frase offensiva, una piccola violenza sessuale, solo che non lo diciamo. Però questa canzone non è solo di denuncia. È una canzone di speranza. Come Carla che ha avuto la forza di superare l’inferno che ha attraversato e ha messo al mondo la sua bellissima figlia: "s’appicceno ‘e spine e nasce nu sciore". Sono felice di aver avuto ospite Marina Mulopulos. Sono una sua grande fan e siamo grandi amiche. Marina ha una voce magica ed estremamente evocativa e ha contribuito in maniera decisiva all’atmosfera dolce e incantata del brano.

“Terra e mare” è il brano che guarda a Napoli, ai suoi vicoli, alle sue donne… ci puoi parlare del tuo rapporto con la tradizione musicale napoletana?
La canzone napoletana fa parte di me da quando ero bambina. Andavo la domenica dai miei nonni e sul giradischi c’erano sempre i classici napoletani arrangiati dall’orchestra Anepeta. Man mano che crescevo i classici venivano considerati sempre più una cosa démodé, provinciale, come il dialetto, quasi qualcosa di cui vergognarsi. Però intanto nasceva Pino Daniele. Avevo undici anni quando fece il tour “Vai mo’”. E chi se lo scorda quel concerto! 
Mi sono sentita la musica nello stomaco. Forse è anche colpa/merito suo se ho deciso di cantare. Poi l’esperienza dell’Orchestra Italiana di Renzo Arbore mi ha fatto riappropriare della tradizione classica. Da lì ritornare alle radici popolari è stato un attimo. Ci sono cose che fanno parte del dna. C’è una frase di Terra ‘e mare che dice “guardame, song’je chesta città”; me la sento tutta.

Concludendo, in “Otto Canzoni” sono presenti anche due riletture: la versione in napoletano de “La confesion” di Lhasa de Sela e “Velha Chica” di Waldemar Bastos. Come mai hai scelto proprio questi due brani?
“Per vari motivi. Sono entrambe canzoni che raccontano un punto di vista femminile. Quella di Lahsa, un’artista eccezionale che ci ha lasciato troppo presto, usa come spunto il tradimento ma in realtà parla della verità, della verità assoluta e della verità della donna. Quella di Valdemar parla della guerra attraverso gli occhi di un’anziana donna. Con poche e semplici parole ti fa sentire addosso tutta l’ingiustizia e la corruzione che stanno dietro ogni guerra. E poi mi emoziona da morire. Quando la ascoltai la prima volta piansi per la commozione. Non potevo non cantarla.


Salvatore Esposito
Foto dalla 3 alla 6 di Salvatore Esposito 

Barbara Buonaiuto – 8 Canzoni (Aquadia/Marocco Music, 2019)
#CONSIGLIATOBLOGFOOLK 

“8 Canzoni” è uno di quegli album di cui si ha bisogno. Anche se si è appassionati e (presumibilmente) conoscitori della musica dell’emisfero napoletano. Perché, nonostante le connotazioni partenopee delle otto canzoni in scaletta, Barbara Buonaiuto – cantante di lungo corso, voce suadente e approccio profondo e delicato – interpreta un sentimento musicale, senza impigliarsi nella maniera. Grazie anche alla visione d’insieme che connota gli arrangiamenti (la produzione è di Rocco Pasquariello e il coordinamento artistico di Francesco Albano) e agli interventi dei musicisti, che riescono a descrivere in modo struggente ogni sensazione evocata dal canto (tra gli altri ricordiamo Luigi Pelosi al contrabbasso, Sasà Pelosi al basso, Dario Guidobaldi alla batteria, Luca Urciolo al pianoforte e fisarmonica, Ivan Lacagnina e Marzouk Mejiri alle percussioni, Carmine Scialla al mandolino, Pino Basile al cupa cupa). Per questo i brani scorrono fluidamente uno dopo l’altro, abbracciati da strumenti delicatissimi e arrangiamenti straordinari, e fanno pensare alla lettura di una storia, all’evocazione di un racconto quasi fiabesco. Da cui emergono alcune tipologie probabilmente riconoscibili (penso ai plettri di Paolo De Vecchio che trillano in “Nu Sciore”, brano in cui interviene anche Marina Mulopulos), ma che nulla hanno a che vedere con lo stereotipo della canzone napoletana. Anzi, in uno spazio definito dalla voce della Buonaiuto, assumono il profilo di un insieme di cardini quasi desiderati, la forma piacevolmente evocativa della storia (stavolta determinante) di una musicalità profonda e antica. L’intero discorso melodico, inoltre, si giova di una strumentazione quasi onirica (bouzuki, elettronica, flauti, gaita, callebasse), che riesce, anche nei brani più ritmicamente marcati (come “Stella Nera”, cantata insieme a Paul Dabirè) a lasciare una sensazione generale di sospensione, di forte empatia con i suoni e la loro collocazione nelle canzoni e “nella” voce di Barbara Buonaiuto. “’Na Carezza” e “Balla pe’ Me”, due brani in cui Lino Cannavacciuolo cura gli arrangiamenti e suona violin zeta e chemanche, sono paradigmatici di questo procedimento. Questa idea generale di profondità e delicatezza ha un riflesso anche nella “forma” dell’album. Il quale si presenta come un oggetto raffinato, sia per la sua delicatezza (esilità ed eleganza), sia per il modo in cui è composto e gli elementi che racchiude. Da un lato può sembrare un libro di poesie, perché in ogni pagina sono riportati solo pochi versi che, come aforismi, sono stati scelti a rappresentare le canzoni dell’album. Bastano poche parole – sembra volerci dire la Buonaiuto – per rappresentare lo “spirito” di ogni brano. E questa attenzione ci emoziona ancora di più. Perché non possiamo non scorgere, attraverso una sintesi così diretta e naturale, un processo complesso di ricerca, attraverso il quale l’autrice ha individuato il nucleo letterario che esprime il concetto e il sentimento della canzone (insomma, non è da tutti). Dall’altro lato, l’album ci appare come un piccolo pamphlet illustrato, che si sfoglia con desiderio e interesse, oltre che con una inevitabile ammirazione. A ogni pagina, infatti, compare un fiore in acquerello (l’autore è Alessandro De Carolis), che partecipa a completare la vocazione di quel mondo, di quella musica sinuosa, colorata, solo apparentemente effimera. In questa coerenza di impianto si possono scorgere anche alcuni elementi che fungono da contrappunto e che si fanno apprezzare proprio per la loro incongruenza. Mi riferisco soprattutto a “Velha Chica”, il brano scritto da Waldemar Bastos e riproposto, con arrangiamenti dei Brigan (trio talentuoso casertano) e Francesco Albano, in chiusura di scaletta. Sebbene il brano sia quasi sussurrato, sia dalla voce che dagli strumenti (elettroniche, flauti, cupa cupa e percussioni), si conforma gradualmente attraverso tratti acidi, esprimendo un ritmo ipnotico e un canto lento, che con piacevole ridondanza reitera il verso principe del brano: “!Xé menino, não fala política/ não fala política/ não fala política”.



Daniele Cestellini

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