E quindi, fatti i doverosi complimenti per le numerose scelte felici, in molti casi culturalmente superiori, torniamo appunto al tema della Rassegna, dal titolo: “Dove Vola Colomba bianca”. Il riferimento a “Dove vola l’avvoltoio” di Italo Calvino da una parte e alla canzone vincitrice del secondo Festival della Canzone Italiana (1952) è chiaro: un excursus a partire dagli anni ’50, passando dalla canzonetta di consumo ai Cantacronache, il tutto visto – viene spiegato – “dall’osservatorio della Canzone d’Autore”. Ma cosa significa questa espressione? Non è chiaro. La Canzone d’Autore esattamente che fa in questo contesto? Guarda, giudica, perdona? Oppure unisce? Al di là del tono ironico, la questione è seria, perché questo passaggio non è chiaro. E se si guarda al Cast, a certi Premi assegnati, ad alcuni ritocchi come l’invito ad Achille Lauro (su cui torneremo), il dubbio di un “compromesso storico” tra quelle due vie alternative, tra quei due modi diversi di intendere la canzone, non solo viene, ma un po’ preoccupa. Anche perché, leggendo e sfogliando l’interessantisso numero de “Il Cantautore” di quest’anno, è proprio Sacchi a spiegarlo: “la nostra manifestazione si propone di tracciare un itinerario della Memoria Storica della canzone italiana che ha in Sanremo il suo epicentro (…) Mai come quest’anno, la città di Sanremo è posta in posizione centrale: significativo è il Premio Tenco dedicato a Pino Donaggio, presente per dieci volte al Festival, manifestazione che ha promosso i suoi grandi successi …”. E prosegue facendo una distinzione tra questo premio assegnato per le glorie festivaliere e poi “Sul fronte del Tenco” quelli a Gianna Nannini e Franco Fabbri. Quindi è stato assegnato un Premio Tenco ad un grande autore (da me peraltro amatissimo) perché ha partecipato a Sanremo? Lo chiedo perché mi ci perdo… Cercare di capire – dopo questa Rassegna – quali siano le direzioni che vuole prendere il Tenco è davvero così pretestuoso, scandaloso, inutile? A me pare proprio di no. Se proprio di epicentri vogliamo parlare – visto che mai era successo che il Tenco considerasse Sanremo epicentro della canzone italiana - qui sembra stia avvenendo un terremoto e lo si voglia far passare per un rumore di trapano. Suvvia! Si scoprano le carte! E la prima carta da scoprire e su cui va fatta chiarezza è quella dell’annosa questione in merito alla Canzone d’Autore, al suo significato, alle varie definizioni che esistono. Per farlo, parto di nuovo dall’articolo di Jacopo (che spero mi perdoni), quando parla di qualità, bellezza, e del farla finita di dire che una canzone di consumo non può essere bella e di qualità. Rispondo dicendo che questa è solo una facile vulgata, forse diffusa, ma che non viene applicata da chi cerca di occuparsi di canzone – nelle sue varie declinazioni – con serietà. Anzi: questo è solo fumo negli occhi.
La qualità è sicuramente una condizione essenziale – almeno a mio parere – nella Canzone d’Autore, ma in generale dovrebbe esserlo per ogni canzone; e comunque nella Popular Music esistono molti prodotti industriali, a tavolino, pensati con scopi precisi e costruiti in catena di montaggio e poi esiste un sano artigianato che si rivolge forse solo al consumo ma è di pregio, come un bel cappotto comprato in un buon negozio invece che in un grande magazzino. E comunque qualità non è sinonimo di bellezza. Facciamo l’esempio di “Vola Colomba”. Jacopo lo definisce un bellissimo pezzo. Questo è un giudizio personale che non condivido. Non lo condivide nemmeno Morgan, che l’ha cantata durante la Rassegna nella versione con il testo in inglese scritto – e mai inciso – da Luigi Tenco: infatti proprio lui – in un video online su youtube datato 2011 – dice: “devo ammettere che nella versione di Tenco in inglese (…) il pezzo migliora senza dubbio ”. E non è una canzone di pace, come ho letto scritto in un’intervista a un noto membro del Direttivo del Tenco. E la Colomba non fa semplicemente da messaggera tra innamorati, come afferma Sacchi nel comunicato (Sul Cantautore spiega meglio e approfondisce): “Vola Colomba” è un’operazione a tavolino, commissionata e nata per ragioni politiche, vincitrice voluta e annunciata di quel secondo Festival 1952. Si tratta infatti – come è noto – di una canzone scritta per ragioni di propaganda nazionale: è dedicata a Trieste, all’epoca non ancora restituita all’Italia. Un’operazione nata per favorire la politica estera della Democrazia Cristiana, che porta alla vittoria del brano in modo non chiaro (si vocifera che a vincere sia invece la seconda classificata “Papaveri e Papere”, che avrà molto più successo e popolarità, ma che sembra invece satireggiare sugli alti Papaveri proprio della DC – e forse – sulla bassa statura di Amintore Fanfani). “Vola Colomba” fa poi anche chiaro riferimento ad un canto che inizia così: “Oh Dio del ciel, se fossi una rondinella”; si tratta di un inno militare degli Alpini (“e li faceva più forti la certezza del loro coraggio” spiega Nunzio Filogamo proprio presentando la canzone di Cherubini e Concina al Salone delle Feste del Casinò Municipale di Sanremo)… altro che canzone di pace: era una minaccia, casomai! Qualità?
Certamente: meglio di così non la potevano confezionare. Ed è l’esempio perfetto di cosa non sia in nessun caso Canzone d’Autore. Ed è quindi ora di spiegare finalmente cosa si intende con questa definizione e di parlare della sua “invenzione”, per usare il termine scelto proprio da Jacopo sul suo ottimo e possente volume del Saggiatore “Storia culturale della canzone italiana”, lettura che consiglio a chiunque si occupi di Popular Music in Italia. "Invenzione” è un termine all’apparenza innocuo, perché in quanto tale significa solo che qualcuno ha dato una definizione a qualcosa. Ma è allo stesso tempo un termine ambiguo, perché può far pensare all’altro senso della parola, a quello che lascia far intendere qualcosa che non esiste se non nella mente di chi fa operazioni “ideologiche” (uso un altro termine molto utilizzato da Tomatis). Prima di entrare nel merito, è necessario affrontare un altro punto dell’articolo del Giornale della Musica che dice: “Tutta la popular music è prodotta e fruita all’interno del sistema di mercato, e non c’è da indignarsi per questo (a meno che non ci si voglia indignare per come funziona il capitalismo – cosa che sarebbe certo legittima, ma che ci porterebbe a divagare)”. Anche questa affermazione è un dato di fatto incontrovertibile, come il discorso sulla qualità. La Canzone d’Autore si inserisce – non potrebbe essere altrimenti – all’interno della Popular Music ed è anch’essa destinata ad essere un prodotto di consumo. Negarlo è altra vulgata (questa sì ideologica, nata all’epoca degli autoriduttori ma sempre combattuta dai cantautori fin dagli anni Settanta), altro fumo negli occhi, che nel 2019 può far solo ridere. Paolo Conte, in occasione del Decimo Premio Tenco, risponde al Cronista Radio Rai che gli chiede “C’è pericolo che possa commercializzarsi la Canzone d’Autore?” “Il successo non vuol dire che lo stile si è commercializzato, casomai che lo stile ha raggiunto più gente oppure che invece una massa maggiore di pubblico si è accostata alla Canzone d’Autore che prima era soltanto per un’élite e adesso è per un pubblico più ampio”. Nello stesso servizio Amilcare Rambaldi afferma: “Finché c’è una minimissima parte di persone intelligenti che hanno una maggiore sensibilità della massa, la Canzone d’Autore sarà sempre amata, sarà sempre sognata, forse da una minoranza, ed è questo il mio cruccio: che questa minoranza non diventi maggioranza.
Ma io finché avrò forza lotterò perché questo avvenga”. Ma perché avvenga bisogna comprare dischi, partecipare del sistema, fare concerti, sbigliettare. Ogni musicista e cantautore sogna ora come allora di vivere e anche prosperare del frutto del suo lavoro. La differenza sta in un fatto fondamentale: che si può scrivere una canzone per il mercato e allo scopo esclusivo di raggiungere il mercato, per fare propaganda come nel caso di “Vola Colomba” o per vendere tante copie come nel caso di “Papaveri e Papere”. Oppure lo si può fare per esigenza interiore di esprimere se stessi, la propria visione del mondo, il proprio racconto della vita, per meglio dire. Lo si può fare per impegno sociale e politico. Lo si può fare per entrare in connessione con chi ascolta. È la stessa differenza che esiste in ogni ambito tra arte e mero consumo. Tra il cinema d’autore o il mero spettacolo, tra Giacomo Leopardi – che comunque tentava di far pubblicare le sue poesie e vivere col ricavato delle vendite – e Moccia. E sfatiamo anche l’altro mito: l’icona del Cantautore con la chitarra acustica e la barba, nella stanza polverosa. Che già detto così annoia. La Canzone d’Autore è una definizione nata in un determinato contesto storico ma non ci verrebbe mai in mente di dire che la poesia in lingua volgare è solo quella di Jacopone da Todi. La Canzone d’Autore non è un genere musicale. È, tecnicamente, un genere letterario, come dice pure Roberto Vecchioni nella Voce dell’Enciclopedia Treccani alla Canzone d’Autore dedicata. È semplicemente accaduto che alcuni artisti abbiano usato la cosiddetta “canzonetta” di consumo “inventando” un nuovo linguaggio, un nuovo genere, per esprimere la loro arte, la loro poetica. Un’altra cosa che va ricordata è che il termine Canzone d’Autore va a braccetto con il termine “Cantautore” ma non corrispondono. Quest’ultimo è nato in seno alla RCA, in una riunione con Vincenzo Micocci. La sua invenzione viene attribuita a Maria Monti e siamo intorno al 1960. Nel 1964, Umberto Eco – come è noto – parla forse per la prima volta di “canzone diversa” per indicare tutto un modo nuovo di utilizzare lo strumento della canzonetta, per raccontare in modo nuovo certe realtà. Lo fa nella prefazione al libro “Le canzoni della cattiva coscienza” di Straniero, Liberovici, Jona e De Maria (prefazione che poi venne pubblicata nel famoso “Apocalittici e integrati”) e parte dal fenomeno dei Cantacronache come
attivatore di questo nuovo linguaggio in canzone: “Non sapremmo dire se i Cantacronache agirono come catalizzatore, o costituirono un fermento massiccio che, unendosi agli altri, diede corpo a quella che si accingeva a diventare corrente, non più caso ma consuetudine, pratica musicale. Il fatto è che oggi, a distanza di sette o otto anni, possiamo riconoscere nel nostro paese un filone attivo di autori; musicisti e cantanti che fanno le canzoni in modo diverso dagli altri” (il corsivo è di Eco). Tre anni dopo Luigi Tenco muore durante il Festival di Sanremo in circostanze mai del tutto chiarite. Due anni dopo ancora, quasi tre, un giovane cronista appena assunto da L’Arena, appassionato di queste canzoni diverse, ottiene dal giornale la cura di una piccola rubrica che di queste canzoni si occupi. Si scervella (conserva ancora il pezzo di carta con scritte e cancellature) per trovare un piccolo titolo per la rubrica stessa. Pensa appunto a “canzone diversa” ma non gli piace. Decide alfine di utilizzare il termine che si usa già per il Cinema e si “inventa” la definizione “Canzone d’Autore”. Il primo articolo esce il 13 dicembre del 1969 (e in vista dei cinquanta anni stiamo organizzando una festa a Roma in un luogo molto bello che si occupa di formazione di giovani cantautori. Ma questa è un’altra storia). Questo cronista era ed è – come sanno tutti – quell’Enrico de Angelis già citato. E che è stato – non a caso evidentemente - stretto collaboratore di Amilcare Rambaldi sin dall’inizio e per venti anni Direttore artistico del Club Tenco. Una volta, in una intervista per il bimestrale “Vinile” (Ottobre 2016, n. 4) gli ho chiesto cosa fosse questa Canzone d’Autore: “è l’espressione autentica di un mondo personale e di una visione della vita”. Sempre nella stessa intervista, facendo l’esempio di Battiato e della “Voce del Padrone”, prosegue: “Nel pop può entrare come sottoinsieme la Canzone d’Autore”. E cosa è la Canzone d’Autore per l’attuale Direttore Artistico del Tenco, Sergio Sacchi? “Per me la Canzone d’Autore è il racconto. È una canzone che racconta una storia, e non mi riferisco ad una biografia… ma una storia che sappia raccontare l’individualità, anche una cosa molto piccola, personale, che magari racconta solo un attimo di intimità. È la capacità di scrittura che fa la differenza. Sono le parole che ti bloccano e ti emozionano” (L’isola che non c’era. Intervista di Francesco Paracchini “La parola come cuore pulsante nella canzone d’autore” 2017).
E i cantautori come descrivono questa loro attitudine? Così Francesco Guccini, nel programma radiofonico “Il Cantautore” del 1973: “La canzone vista come un metodo per indagare su se stessi e sulle cose che accadono tutti i giorni, anzi le cose che accadono tutti i giorni possono essere qualunque avvenimento che colpisce in un qualunque modo, quindi la canzone diventa anche un mezzo di esprimere se stesso e di raccontare le cose che si sono fatte. Poi ci sono state delle canzoni che sono diventate canzoni di tutti (…)”. Stessa trasmissione, stesso anno, altro cantautore: Lucio Dalla, che ci dice anche di più; ci dice infatti che quello che resterà sempre il punto centrale della sua poetica, cioè la narrazione del futuro, è presente già nella sua prima canzone, anche se il testo è di Sergio Bardotti: “1999 è stata la prima canzone che io ho fatto come autore ed è una canzone tuttora moderna e realizzata in maniera moderna e soprattutto ha un testo e una musica che non sono retorici, non sono legati a degli schemi precedenti. La canzone è del 1967 (sic!), quindi allora era veramente nuova. E questo non è occasionale: cioè la prima canzone che ho fatto è una canzone proiettata nel futuro, non interessandomi a quello che fosse il risultato commerciale o perlomeno il successo del pubblico inteso come massa; poi invece ho scoperto che oltre a scrivere per me, cioè l’esigenza è sempre privata, quasi una malattia, io avevo bisogno di un dialogo che era senz’altro più importante di questo fatto. Cioè la comunicazione tra me e il pubblico, che stimolava la nascita di una canzone e non soltanto individualmente il bisogno di scriverla”. Ecco quindi i punti centrali della Canzone d’Autore: l’esigenza di raccontare e raccontarsi e la poetica personale in un dialogo con il pubblico, che prescinde dal fatto commerciale. Jacopo Tomatis nel suo libro già citato lo dice chiaramente: “L’etichetta canzone d’autore legittima definitivamente un certo tipo o discorso intorno alla canzone, perché lo riconduce ai parametri di quello sulla letteratura e sull’arte”. Verissimo. Ma è proprio per questo che Sanremo Festival e Sanremo Premio Tenco viaggiano su due binari distanti, come scrisse Amilcare a Enrico. Certamente una Canzone d’Autore può – e magari ce ne fosse di più – finire a Sanremo. Ma non è necessario. Semplicemente nella cultura Popolare del Novecento è stato inventato un linguaggio letterario del tutto nuovo che si esprime nello spazio temporale della canzone e nel connubio tra musica e parole. In questo senso – torniamo a noi e finalmente al terzo punto analizzato da Tomatis – può Achille Lauro fare canzone d’Autore? Certo che sì. Personalmente faccio fatica a non pensare a lui come a un prodotto di marketing.
Per altri non è così. E che venga quindi di certo al Tenco, se si pensa che la sua sia una poetica e che sia un innovatore nel linguaggio della canzone. Ma perché affidare proprio a lui la sigla? È stata sicuramente una scelta simbolica (non riuscita; potete dire quello che volete per raccontare l’interpretazione di quella sigla: il Re è nudo. È stato terribile. E ci chiediamo se Morgan e Lauro la abbiano provata almeno una volta prima…) Ma a parte questo, il punto centrale è un altro – e qui abbandono la ricostruzione e entro nell’attualità che interessa al critico: Achille Lauro non ha proprio nulla in comune con Luigi Tenco. Lui non è un incompreso, come ha invece dichiarato durante la conferenza stampa nella sede del Club. Lui è compreso da moltissimi e buon per lui. È compreso anche da chi in realtà non lo comprende. Rappresenta nell’immaginario collettivo la trap. Ma se davvero il Tenco voleva narrare nuovi linguaggi perché non lasciare spazio a gruppi rap rivoluzionari come i Coma_Cose (faccio solo un esempio tra tanti), forse meno noti, ma davvero futuro autentico della Canzone d’Autore? Perché, per portare in rassegna il nuovo, ha scelto esclusivamente Lauro? E così facendo dimenticando quel passaggio fondamentale per cui il Tenco è nato ed esiste, quella famosa risposta di Amilcare Rambaldi all’articolo dell’Oggi Illustrato: “Bravi, Bravissimi (questi cantautori), ma chi li vuole?” “Li voglio io”. Achille Lauro lo vogliono tutti. Arriva diritto filato da Sanremo. Al Tenco ci sono stati anche Rancore e Fulminacci, è vero. Bravissimi. Però c’erano solo perché avevano vinto le Targhe, che nulla hanno a che fare con le scelte della direzione artistica. C’è una ragione per questo. Una ragione mai nascosta: Sergio Secondiano Sacchi l’ha espressa a più riprese, anche nell’intervista al Direttore Paracchini per l’Isola che non c’era, già citata. Per Sacchi il prolifico, fertilissimo mondo della Canzone d’Autore di oggi non inventa nuovi linguaggi e non lo “appassiona”. Usa questo termine con convinzione: “Quando dico che dopo Capossela non è successo più niente, non ho bisogno che qualcuno mi ricordi che sono usciti molti artisti, alcuni dei quali bravissimi e che tra l’altro mi piacciono molto. (…)
Ma vorrei chiarire bene il concetto. La frase che hanno riportato sui social (…) non era esatta: io ho detto dopo Capossela i giovani non mi appassionano più. La lingua italiana è ricca di sfumature e va rispettata: appassionare non è sinonimo di piacere o di conoscere e nemmeno di emozionare. Sottintende un coinvolgimento totale: emotivo, culturale, estetico. È una differenza non da poco e credo che questo sia stato l’equivoco. La passione, nella Canzone d’Autore ma come in tutte le cose, è importante. Un artista ti può emozionare, ma diventare appassionati di qualcuno è un’altra cosa. Ecco, questo volevo dire, che negli ultimi dieci-quindici anni non sono riuscito a trovare un nuovo artista che mi abbia fatto appassionare alla sua poetica. Questo appunto non significa che non ci siano stati, e sono parecchi, artisti o album che mi siano piaciuti e anche molto”. Vorrei dire a Sergio Sacchi, col cuore in mano, che per appassionarsi bisogna però essere in due, lasciarsi andare, vincere preconcetti e anche la propria stanchezza. Bisogna andare a cercare e scavare in mezzo. Bisogna ascoltare anche cosa accade intorno: personalmente, proprio partecipando ai lavori delle commissioni per le Targhe Tenco di qualche anno fa, ho scoperto un campo sterminato di sperimentazioni, nuovi linguaggi, uso dei dialetti, dei suoni, dell’elettronica, degli strumenti di tutto il mondo. Ho sentito musica world, folk, pop, rock, folk rock, rap, trap, elettro-pop da perderci la testa. Come sempre succede in tempo di crisi, c’è un fervore creativo straordinario in Italia in ogni campo artistico. Ed esiste un mondo immenso e sterminato di passione, un mondo di musicisti underground che fanno della Canzone d’Autore la loro ragione di vita: protestano, raccontano, si mettono in gioco, portano avanti la loro visione del mondo: la loro poetica, insomma. Non hanno spazi mainstream come Achille Lauro e come una certa trap che ha trovato una facile vetrina discografica con le Major, come non ce l’aveva negli anni Sessanta Tenco. E ora che si è tutto parcellizzato, fatto in piccoli pezzi, col paradosso di un mondo globale che però diventa sempre più a compartimenti stagni, è per loro ancora più difficile. Dicono che questi artisti non suscitano interesse tra i giovani e non hanno pubblico con cui dialogare alla maniera del Dalla citato.
È falso. Prima di tutto perché loro stessi sono giovani, e poi perché vorrei tutto il Direttivo del Tenco che si muove a partecipare a un concerto dei Foja o del Muro del Canto, o di Lucio Leoni o di Giovanni Truppi ,che è stato una delle ultime scoperte della precedente direzione artistica e che fa sempre sold out in posti dove trovano difficoltà anche i grandi, come l’Auditorium a Roma: e sono tutti ragazzi! E per quanto riguarda una canzone più classica, più attenta alle vecchie radici melodiche e a un linguaggio più lineare, più caro ai cantautori vecchio stile, chiedo sempre al Direttivo: le radio mainstream le sentite? Davvero c’è solo la trap e l’Hip Hop? Niente affatto. Ma come passa una Giorgia e una Laura Pausini o qualche giovanotta uscita dai talent, così potrebbe passare una scrittura matura come quella di Marta de Lluvia o di Adèl Tirant, di Agnese Valle, di Eleonora Betti. Accanto a Ultimo e Fabrizio Moro, potrebbero andare i Sergio Pennavaria, i Carlo Valente, gli Jacopo Perosino. Ho detto nomi anche a caso, così, come mi vengono in mente. Troppi ne dovrei citare. Alcuni hanno partecipato ai “Tenco Ascolta”. Ma anche lì: quella era una manifestazione nata affinché il Tenco si spostasse sul territorio per scoprire nuovi talenti e portarli poi alla Rassegna. Ora sono diventati eventi locali, quasi fossero contentini per artisti di serie B, quelli che “non riempiono l’Ariston”. Localmente sono già noti. Così come è ora il Tenco Ascolta diventa per loro una qualsiasi data sul territorio. A che serve se al massimo finiranno alla sede del Club in qualche oscuro pomeriggio di novembre? Sacchi ha mantenuto la promessa di dedicare la Rassegna ogni anno a un tema perché la passerella di cantautori da proporre non ha più senso (secondo lui). Bene: del tema di quest’anno abbiamo parlato. L’anno scorso il titolo era “Migrans”. Sull’argomento questi giovani cantautori negli ultimi anni hanno scritto dei veri capolavori. Ma l’anno scorso nessuno di loro era sul palco dell’Ariston. A me, personalmente, non cambia nulla. Ma se venire al Tenco significa da oggi in poi andare a vedere una Mostra bellissima di glorie del passato lo si dica: però poi diventerà davvero il “Museo dal vivo”, citato da una importante giornalista musicale. Bellissimo come lo è una Mostra di Caravaggio, con qualche istallazione pubblicitaria qua e là, magari, e qualche apertura al nuovo: quello rassicurante e mainstream, arrivato direttamente dall’evento di febbraio, come Lauro, giustappunto. Però sarebbe un peccato. Lasciatevi “appassionare”, perché il Tenco è stata una lunga e imponente costruzione. È stata costruita da Amilcare Rambaldi insieme ai suoi “ragazzi”. Ma questi ragazzi sono solo i costruttori, appunto, e non i padroni di casa. Il Tenco non appartiene a Sergio Sacchi, non appartiene ad Enrico de Angelis. Il Tenco è la casa dei Cantautori, per missione, per Statuto, per volontà collettiva. Aprite quella porta. Altrimenti se ne andranno. Altrove.
Elisabetta Malantrucco
Tags:
Questioni
Molto bello
RispondiElimina