La XXVI edizione del Festival “La Zampogna” fa i conti con le intemperie, ma ancora più con l’irragionevole burocrazia italica, che si traducono in repentini cambi di palinsesto, fino alla scarnificazione di quello che da quasi trent’anni è un evento irrinunciabile nel calendario delle musiche di tradizione orale. Maranola è un sito concreto ma anche un luogo dell’immaginazione zampognara, dove diverse generazioni di suonatori si incontrano; una casa di confronto, di scambio, di divulgazione e valorizzazione, di apprendimento di pratiche e tecniche esecutive nuove, di presentazioni di libri, dischi e film. Profluvio di note ma soprattutto di uomini e donne: costruttori, suonatori, ballerini, turisti musicali e cultori degli aerofoni popolari e non solo. Musicisti che convengono non con lo spirito di chi propone musiche museificate, bensì forti della certezza che questi strumenti arcaici (o oggi innovati da fini costruttori) siano capaci di comunicare con sensibilità contemporanea.
A Maranola, c’è sempre stato chi la “tradizione” pastorale l’ha respirata e chi ne ha fatto una scelta estetica e culturale, talora esistenziale: autodidatti e artisti di provata esperienza e solida formazione musicale. Maranola è al centro della rinascita degli aerofoni a sacco, evento catalizzatore, propulsore e instillatore. Quest’anno è stato l’Auditorium Parco della Musica di Roma, istituzione che collabora da qualche anno con la manifestazione pontina, a ospitare, venerdì 15, con buon riscontro di pubblico, il concerto anteprima dei greci Methorios e dei calabresi Phaleg. Poi l’antico borgo del Basso Lazio è diventato, come sempre, il centro di un festival che fa della semplicità la sua cifra estetica. Purtroppo il maltempo e le prescrizioni di sicurezza delle autorità dovute alle condizioni climatiche hanno impedito la consueta mostra-mercato degli strumenti e hanno costretto gli organizzatori - come detto poc’anzi - a ridurre drasticamente il programma. Limitata, dunque, la presenza del pubblico nell’arco dei due giorni.
Ad ogni modo, la sera del sabato 16 è stato presentato il volume “La Cabrette” (a cura di André Ricros), con un intervento dell’insigne musicista ed etnomusicologo francese Eric Montbel, che è tra gli autori del volume dedicato a una delle più importanti cornamuse transalpine. Inoltre, c’è stato un primo assaggio del suono della sordellina, ricostruita da Marco Tomassi. La domenica mattina si è aperta con l’evento più atteso, la processione di zampognari, che si snoda lungo le viuzze del paese fino alla piazzetta di Sant’Antonio Abbate. Il Festival è sempre stato soprattutto questo, anche nel passato caratterizzato dalla crescita felice del budget e dalla grande internazionalizzazione della rassegna: ritrovarsi per una sorta di rito consueto, devozionale per tanti, “coscienza di luogo” per tutti. È il farsi comunità intorno alla semplicità dell’edicola votiva della Madonna degli Zampognari. “Un Festival resistente e senza orpelli”, ha detto un commosso Ambrogio Sparagna che, con Erasmo Treglia (e un bel gruppo di volontari), condivide da sempre l’onere di dare vita a “La Zampogna”.
Eravamo in pochi nella piazzetta, dopo il piccolo corteo di zampogne, ciaramelle, organetti e campanacci, ma non è stato meno commovente di altre volte ascoltare i canti votivi alla Madonna, quest’anno intonati dalla voce di Francesca Trenca (che ha tenuto anche un corso di danza) e la zampogna di Marco Tomassi. La coppia ha eseguito anche una ballarella, dedicata a un anziano locale scomparso proprio all’incirca un anno fa. In tempi di arrivismo artistico da contest televisivo, venire qui significa muoversi con altro passo: per molti zampognari - raccontava Erasmo Treglia - la lunga fase dell’accordatura degli strumenti era perfino più importante dell’eseguire il brano stesso, poiché produceva un senso di appartenenza, di condivisione, di comune sentire. Se non si comprende questa profondità dell’essere suonatore di zampogna, non si potrà apprezzare “Una storia di vita” (Rubbettino 2019, libro con CD e DVD), il docufilm realizzato da Danilo Gatto, sulla figura di Giuseppe Ranieri, straordinario “mastru ciarameddharu” di Sant’Andrea Apostolo dello Jonio (CZ) e sulla sua dinastia familiare di suonatori e costruttori di aerofoni.
Non si tratta di una ricerca etnomusicologica, ha chiosato l’autore, piuttosto di un atto di restituzione a persone che hanno insegnato tanto, animate dalla volontà di consegnare ad altri il proprio sapere. Quello delle “capre che suonano” calabresi è un suono pervasivo e avvolgente, che ti possiede, che procura “vertigine”. Emozioni forti, totalizzanti, come quelle procurate dall’ascolto della sordellina. Come non lasciarsi incantare dal suono ritrovato di uno strumento rinato grazie alla lunga e preziosa opera di studio iconografico e organologico, nonché alla perizia costruttiva ed esecutiva di Marco Tomassi e della Liuteria Montecassino? Si tratta di uno strumento - come racconta lo stesso Tomassi - «vissuto tra il 1640 e il 1690, inventato da Manfredo Settala, che gareggiò con altri illustri del suo tempo per dare dignità di organo a tale strumento, alimentato da un mantice, suona su tre linee melodiche con un’estensione di tre ottave». Tomassi, in compagnia di Eric Montel alla musette de cour e di Marco Iamele ai flauti, ha proposto un saggio
dell’ipotetico repertorio del fascinoso strumento cortese sulle cui tracce si è messo a indagare per tanti anni. Nello specifico sono stati eseguiti materiali francesi per musette e brani del repertorio seicentesco napoletano. Nella stessa sala del “Centro Studi De Santis” abbiamo ascoltato lo storico gruppo di musica tradizionale calabrese, Phaleg, che sono Antonio Critelli (lira calabrese e pipìta), Salvatore Megna (canto, chitarra battente, tamburo a frizione) e Danilo Gatto (zampogna, fisarmonica, organetto e tamburello) in un set essenziale di canti d’amore, canti di spartenza, canti alla lira e sonate a ballu. Il trio si è anche allargato a quartetto, con la partecipazione di Sebastiano Battaglia (armonica a bocca, zampogna) di Cardèto, località grecanica aspromontana, a segnare l’incontro con quella cultura greca di cui sono stati protagonisti il trio Methorios (gajda, kaval, davul). Provenienti dalla Tracia, sono guidati da Panagiotis Zikidis - uno degli artefici del revival dell’aerofono a sacco gajda - e accompagnati dal gruppo di danza Pàradosi. I Methorios si sono esibiti nella Chiesa Madre dell’Annunziata, dove si snoda la parte finale del festival, “ll Bordone Sonoro”, quando molti dei suonatori partecipanti alla manifestazione intervengono per dare continuità al flusso sonoro degli otri. È stata l’occasione per consegnare il Premio ACEP-UNEMIA a Marco Iamele, in qualità di fine compositore per zampogna. Un segno tangibile di quanto il Festival abbia seminato in 26 anni. Difatti, negli archivi fotografici della manifestazione si trovano immagini di un adolescente Iamele, che si aggira suonando nelle jam maranolesi, mettendo in luce una dedizione che oggi è arrivata a maturazione. In genere, la cronaca da Maranola si conclude con l’ appuntamento all’anno che verrà. Allo stato attuale, fitte nuvole scure si sono ammassate su “La Zampogna 2020”, perché, come già detto, la burocrazia che rende sempre più difficile organizzare concerti in certi luoghi e certe politiche culturali ottuse stanno mettendo alle corde chi si prodiga da anni perché questa festa musicale si perpetui. Da irriducibili del folk, non perdiamo la speranza di ritrovarci, come sempre, alle pendici degli Aurunci.
Ciro De Rosa
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