Mari Boine: La Terra è nostra madre: uccidendola, uccidiamo noi stessi

Quando d'inverno la campagna è sottozero e la nebbia livella ogni cosa, aghi di ghiaccio trasparente o bianco opaco pendono dai rami e dai tetti: è la “calinvèrna” come dicevano i contadini nella Pianura Padana quando ero piccolo. Anche in quella che sarebbe diventata la mia terra d'elezione, la Bretagna dalla bocca scolpita dal vento di maestrale, l'ho ritrovata, da quelle parte viene chiamata ”gwalarn”. Allora ci si chiude in case basse, dai tetti spioventi d'ardesia, piene di camini anneriti dal tempo e dal fumo e magari si ascolta la musica. In questi casi ci si può sentire davvero ridicoli pensando al gelo della Lapponia, la regione bianca che trascende i confini esistenti tra i quattro stati su cui è ripartita e il cui unico scopo è probabilmente la preservazione della sua cultura Sami, il diritto a una terra per il pascolo delle renne nell'eternità della neve , tra conifere e torbiere sotto l’aurora boreale. Pensare che una piccola, giovane donna parta da lì, dalla periferia artica dell'Europa, dall'immenso silenzio di una comunità spesso analfabeta, alcolista, basata su scale di gerarchia maschile che considera la femmina un essere inferiore, e faccia ascoltare la sua voce fiera al mondo occidentale e al tempo stesso sferzi la sua gente affinché non sia in futuro spazzata via definitivamente dalla faccia della terra, è quasi impensabile, eppure è quello che è successo. 
E' questo che ha saputo fare Mari Boine Persen. Nascere da un popolo forgiato da secoli di strategie per la sopravvivenza e crescere in una società dove il rigoroso Luteranesimo Apostolico impone la discriminazione perfino nei confronti del canto tradizionale “joik”, considerato "opera del diavolo”, ha probabilmente prodotto in questo caso un effetto musicale e poetico esplosivo. Appena noi tutti alla fine del secolo scorso, abbiamo ascoltato “Gula gula” siamo rimasti a bocca aperta, attraverso quell'immenso occhio di una civetta delle nevi ci si spalancò un universo fino ad allora sconosciuto. In questo disco, la canzone "Oppskrift for Herrefolk" (“Ricetta per una razza padrona”) è l'unica cantata in norvegese, a differenza delle altre tutte in Sami: “Segna i confini sulla carta e poi chiamali stati, sii re, ministro, protettore e padre, manda uscieri e affaristi, preti e soldati al popolo e prendigli la terra che possiede. Utilizza la bibbia, l'acquavite e il fucile, rompi promesse e accordi, sii diplomatico e usa articoli di legge contro diritti antichissimi, crea il pregiudizio, la discriminazione e l'odio e che mai nessuno discuta la tua autorità. Metti in un museo la lingua e la cultura, trasformale in oggetto di ricerca e di attrazione turistica, 
pronuncia discorsi solenni ad ogni festività, disintegra e ammazza quello che era una nazione e che nessuno discuta la tua autorità. È così che si opprime una minoranza.” A Roma, nel 98 avanti Cristo, furono le “cronache” di Publio Cornelio Tacito per prime a riportare per iscritto voci di un popolo sconosciuto, barbaro, primitivo e selvaggio che viveva allo stato brado ai più estremi confini sul Mar Baltico, senza alcuna proprietà, senza coltivare la terra, dormendo promiscuamente in capanne di rami. Non conoscevano il ferro e andavano in giro a caccia nudi. I Sami potrebbero essere in effetti gli ultimi “Indiani d'Europa”. Mari Boine è nata e cresciuta in una famiglia di pescatori, a Gámehisnjárga, un villaggio sul fiume Anarjohka nel comune di Karasjok nel Finnmark, vicinissimo a Capo Nord. Bisogna precisare che quando nel 1990 l'album “Gula gula” ebbe una eco mondiale grazie alla celebrata Real World di Peter Gabriel si trattava in realtà di una riedizione perché il disco era già stato immesso sul mercato l'anno precedente dall'etichetta norvegese Idut, con una copertina differente recante il titolo “Gula Gula (Hør Stammødrenes Stemme)”("Ascolta le voci delle madri"). Inoltre, a differenza di quanto viene sempre scritto, non era nemmeno il suo esordio discografico perché nel 1985, sempre in Norvegia, c'era già stato l'LP “Jaskatvuođa Maŋŋá (Etter Stillheten)” (“Dopo il silenzio”). Il 19 marzo del 1996 avrebbe dovuto venire a cantare nella mia città, all'interno della Rassegna “Musicasfera”, purtroppo il concerto venne annullato all'ultimo minuto e così il 12 luglio la ascoltai a Correggio (RE), poi il 24 ottobre lei rappresentò il Nord del Mondo nel simbolico abbattimento delle barriere culturali tra i popoli operato dal Club Tenco durante la 21a rassegna della canzone d'autore a Sanremo. L'anno dopo si riuscì finalmente a farla venire a Verona, martedì 8 luglio, nel corso di una piccola tournée italiana che prevedeva il giorno prima la partecipazione 
al Folkest di Udine, poi una tappa al Festival di Palinuro (Sa) e infine a quello di Sassari. Era piena estate e c'era un gran caldo. Uno dei luoghi più freschi e bianchi che le si poteva offrire era una cava di marmo ai piedi del Monte Solane (il cui nome deriva da una antica incisione trovata su un altare pagano, ancora oggi conservato nella chiesa di San Giorgio in Valpolicella, che porta l’iscrizione “Soli ac lunae” - “Al dio sole e alla dea luna”). La gente era tantissima, seduta per terra o arrampicata sulle rocce, ipnotizzata dal crescendo emotivo suscitato dall'abisso vocale del canto “joik”, un canto che si trasmette dalle viscere e che ha l'intento di trasferire al suo interno lo spirito di un luogo o di una persona, spesso improvvisando. L'atmosfera era irreale, le nuvole si erano aperte e dietro tutte le stelle sembravano accorse a rendere omaggio alla profondità cosmica e alla passione di questa musica, in perfetto equilibrio tra culture antichissime e soluzioni sonore moderne. Il gruppo era meravigliosamente unito e all'apice della propria creatività: al canto della poetessa della tundra e dei boschi, si accompagnavano i catartici ritmi tribali e raffinati del variopinto basso di Gjermund Silsel e i suoni atavici delle percussioni e dei tamburi di Helge Andreas Norbakken, mentre i delicati echi psichedelici della chitarra elettrica di Roger Ludvigsen compenetravano gli echi della quena e del charango del peruviano Carlos Zamata Quispe e del violino lacerante di Hege Rimestad. Era un torrente in piena che ti assaliva per poi venire a spegnersi nelle placide note di un flauto delle Ande perse nel silenzio. Vorticose danze visionarie e preghiere vocali a ricordare la ricchezza di un popolo che vive in faccia ai mari increspati e ai venti gelati dell'estremo Nord, in una perfetta sintonia con gli elementi. 
Qualcosa di mai ascoltato prima e non assimilabile a nessun genere musicale, la musica di un “futuro antico”. Alla fine in italiano ci ha invitato tutti “sulla montagna sacra prima che l'oscurità scenda”. Nessuno voleva più che quella notte finisse. Nel Nord Europa è senza dubbio più facile provare sentimenti di terrificata soggezione di fronte alla Natura, quella che altrove è stata chiamata “l'anticamera di Dio”. Una delle poche risposte creative possibili che l'essere umano ha trovato davanti al sublime della natura è stato lo sciamanesimo. Mari Boine ci ricorda però anche che al Polo Nord, l'Oriente e l'Occidente si incontrano in un punto solo. E in una di quelle case bretoni, basse e dai tetti spioventi d'ardesia, illuminate di fuoco di cui parlavo all'inizio mi è capitato di ascoltare la voce degli sciamani Denez Prigent e Mari Boine duettare insieme, l'indignato canto globale dell'Erba della Morte: “Hanno lordato l'acqua della sorgente e cambiato il senso del vento, hanno indebolito il chiarore del sole, stancato la terra, marcito la linfa, hanno estinto la luna e le stelle, abbattuto l'albero in fiore, hanno abbattuto l'albero sacro e giocato con le sementi della vita. Hanno cambiato quello che non doveva essere cambiato, hanno seminato quello che non poteva essere seminato, hanno seminato l'erba della morte che trasforma il contadino in schiavo, hanno seminato i grani della follia che portano il contadino a perdersi. Ed ecco arrivato il tempo delle mietiture, sentite nei pascoli del mondo, sentite nei pascoli del mondo la Morte che falcia? Ed ecco arrivato il tempo del rimpianto perché questo raccolto è il peggiore, nessuno festeggerà la mietitura se non il Diavolo e alla sua tavola. i mercanti degli O.G.M.” (“Geotenn ar marv”).


Flavio Poltronieri
flavio.poltronieri@libero.it

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