Li Ucci Festival, Cutrofiano (Le), 8-22 settembre 2019

Riusciti i brani che restano in dialogo con il cuore profondo della tradizione, sia pur trasposta nel contemporaneo. Convincono meno le proposte che strizzano l'occhio al mainstream della musica popolare. Tra madonnari, racconti sul tabacco, terrecotte che suonano, pranzi sociali: Cutrofiano è qui. 

Arrivando in Piazza Municipio, l'antica “Rimesa” di Cutrofiano, a colpire per prima non è la scena verticale del palco, ma quella che guadagna dal basso della strada lo sguardo severo di Uccio Aloisi ritratto sull'asfalto. Un lampo sembra venire fuori da quegli occhi posti a guisa di protettori e guardiani: sono le luci che si accendono per dare il “la”” alla serata finale della nona edizione de “Li Ucci Festival”, la settimana di musica e cultura tradizionale che celebra i tre grandi cantori del paese salentino, Uccio Aloisi, Uccio Bandello, Narduccio Vergaro. Al cantastorie P40 è affidato il benvenuto al pubblico della lunga festa che si concluderà a notte inoltrata, riproponendo – come da “mission” del progetto – la gloriosa tradizione degli stornelli, accanto alle pizziche e al repertorio più “consumato”, sulla traccia del gioco tra passato e presente, tra omaggio tour court e innovazioni musicali più o meno ardite. “Bella ci dormi”, cantata dalla “guest” Alessandra Caiulo, voce storica de La Notte della Taranta, è una sorta di overture dello show de Li Ucci Orkestra che comincia con il classico “Lu tambureddhu meu”, e prosegue traghettato dagli oltre venti cantanti che si passano la staffetta sul palco. 
L'appuntamento corale è con “Stornelli”, il singolo del disco live “Concerto alla Rimesa” dedicato alla manifestazione (Kurumuny 2018). Festaiolo anche il pezzo successivo, con l'orchestra che si prende la sua parte del palcoscenico nella lunga sequenza strumentale che unisce tamburelli, tamburi, bidoni, fiati, corde ed elettronica guidati da Vittorio Chittano, Alessio Giannotta e Gigi Russo, i tre a cui si devono le “linee guida” degli arrangiamenti. Si torna a masticare un'atmosfera più verace con “Allu tiempu de li lupini” cantata da Luigi Mengoli e Giacomo Casciaro, accompagnati dal pubblico per l'intera durata del brano. Riuscita anche “Vogliamo le bambole”, pezzo da gran finale, nonostante lo spettacolo prosegua poi per almeno un'altra ora. Michela Sicuro, giovane rivelazione alla Notte della Taranta, canta “Comu na rosa” e la dedica alla “maestra” Niceta Petrachi, spentasi a 92 anni lo scorso agosto. Le sorelle Gaballo, come fiere regine di paese in abiti rosso e leopardo, non deludono neanche questa volta intonando “La monacella”, struggente canto alla stisa. Infine, riesce nella non facile impresa di un omaggio a Uccio Aloisi anche Carla Petrachi, che canta “Fiore di tutti i fiori” accompagnata da Gino Nuzzo, proseguendo la tradizione del Festival che da sempre affida alle donne il cavallo di battaglio di Uccio, «ineguagliabile dagli uomini» come sottolinea il direttore artistico Antonio Melegari. 
Sono, questi, alcuni dei pezzi che tengono alta la lunghissima scaletta della serata, “prendendo per mano” anche quelli che svelano arrangiamenti ed esecuzioni in parte confusi ed eccessivamente eclettici, se non ammaccati, per ambizioni di show. Non convince, ad esempio, “Fimmene fimmene” proposta in chiave balkan, nonostante l'intenso monologo finale di Cristoforo Micheli tenda a riportare al centro il contenuto doloroso del noto canto dedicato alle donne stuprate nei campi di tabacco. Così come la versione, decisamente pop, de “Lu sule calau calau”. Appare chiaro come la forza del festival non risieda nelle proposte che strizzano l'occhio all'attuale mainstream della musica popolare, con risultati a volte claudicanti, ma nella schiettezza degli stornelli, in un'esecuzione verace, in un'autenticità di presenza in dialogo con il cuore profondo delle cose, quella stessa allegria genuina, quei dolori sommessi dal colore domestico, quotidiano, gli strali schietti dei canti di dispetto, lo sfottò bonario dell'osteria: il “mood” della tradizione, sia pure attraverso una trasposizione contemporanea fatta di ritmi nuovi e a braccetto con l'elettronica. Non è un'operazione semplice, lo sappiamo. L'impressione, tuttavia, non cambia. È interessante, ad esempio, notare come la cura “televisiva” dei costumi propria di altri palcoscenici sia sostituita qui dalle semplici tshirt del Festival che chiunque, dai musicisti allo staff – ospiti e ballerini a parte – indossa. È un segnale di umiltà, nonché di familiarità e spirito di squadra, il quale è palpabile e rappresenta certamente un punto a favore della serata, con Antonio Melegari 
Foto di Giorgia Salicandro
che si destreggia tra la gestione del palco e le varie necessità del backstage, il pianista Gigi Russo che dà gli attacchi ai colleghi e anima anche, batte le mani, salta, si diverte, i fiati e gli archi che si rispondono ammiccando e sorridendosi. Le nuove leve, che ogni anno si aggiungono ai colleghi più grandi, come il giovane Matteo Coppola che suona i bidoni del compianto Raffaello Murrone insieme alle terracotte della tradizione artigiana di Cutrofiano, vasi e anfore, come percussioni; o il giovanissimo Diego Vergari, promettente sassofonista di sedici anni. Degna di nota anche la scelta di superare il tabù anagrafico dei danzatori affiancando alle donne del corpo di ballo due vispi ballerini più “adulti”, Claudio Longo e il veterano Romolo Crudo (e sarebbe entusiasmante se in una futura edizione, su questo palco - o su un qualunque altro - vedessimo un'ottima danzatrice cinquantenne ribaltare lo stesso tabù anche per le donne). «Ciò di cui vado orgoglioso è soprattutto l'unione autentica che si è creata tra musicisti, danzatori e tutto lo staff, cosa che possono invidiarci in tanti – commenta Melegari – negli anni abbiamo accolto tanti giovani musicisti, sono nati dei gruppi o nuove connessioni a partire dall'esperienza di Cutrofiano. C'è uno scambio sincero, come nel pranzo sociale di fine edizione che è una tradizione a cui teniamo molto: ognuno porta un piatto e si mettono a confronto i pezzetti di cavallo e le parti in scena senza soluzione di continuità»
Torniamo a mescolarci con il pubblico. Ci allontaniamo dalla folla, raggiungiamo nuovamente il margine della piazza, dove campeggia ancora il disegno di Alice Valente, «madonnara tradizionale» (come ci tiene a presentarsi) di 29 anni. Intorno al volto di Uccio, un bestiario onirico di pesci, meduse, polpi arcobaleno, prodotti durante il laboratorio di due giorni con i bambini. Accanto, un crocchio di questi – e anche qualche passante più che maggiorenne - si diverte a completare il lavoro con i gessetti. Sullo sfondo, un gruppo di anziani accomodati su una panchina, con un occhio all'estro dei nipoti e un altro al palco. «Ho raccontato loro la storia dei madonnari, gli ultimi tra gli ultimi nel Medioevo, nomadi che in cambio di ospitalità disegnavano la Vergine sull'uscio delle case» spiega Alice. La sua è stata una delle molte attività della settimana, tra esposizioni di terracotte e ceramiche, assaggi di cibo locale, laboratori di arti tradizionali, proiezioni sulla storia del tabacco, passeggiate in bicicletta, oltre ai concerti di Antonio Castrignanò con Rocco Nigro e Redi Hasa, Arditi del Coro, Civico 22 e Carlo "Canaglia", I Trillanti e, nella serata finale, il coro dei Piccoli canterini siciliani della Riviera Jonica Melino-Romolo. Esperienze autentiche che hanno coinvolto centinaia di persone di ogni età, riportando alla luce le gioie della cultura tradizionale del Sud Italia, spesso quasi dimenticate, attraverso lo scrigno de Li Ucci Festival. 


Giorgia Salicandro

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