Enrico Rava/Joe Lovano – Roma (ECM, 2019)

Nato a Trieste il 20 agosto 1939 e formatosi da autodidatta, Enrico Rava vanta un lunghissimo percorso artistico intrapreso, muovendo i primi passi, come trombonista dixieland e proseguito imbracciando la tromba dopo la folgorazione sulla via di Miles Davis, durante un suo concerto alla fine degli anni Cinquanta. Da quel momento ha preso il volo una carriera straordinaria che lo ha portato ad immergersi nella scena musicale di New York di fine anni Sessanta (“lì c’erano i miei idoli, tutti musicisti che avrei voluto incontrare), mettendo in fila collaborazioni con alcuni dei mostri sacri della scena americana da Steve Lacy ad Archie Shepp, passando per Roswell Rudd, Cecil Taylor, Charlie Haden, fino a toccare la Jazz Composer’s Orchestra e Carla Bley con cui incise alcuni storici album. Dotato di una sensibilità unica verso la melodia e di una costante tensione verso la ricerca sonoro, il musicista triestino si è imposto in breve tempo come uno dei principali grandi solisti europei, cristallizzando una cifra stilistica inconfondibile in cui raffinatezza ed eleganza vanno di pari passo con l’improvvisazione e la sperimentazione. Tutto questo emergeva in nuce già nel suo primo album per la ECM, “The Pilgrim and the Stars” del 1975 e man mano è andato consolidandosi negli anni successivi con dischi come “Volver” del 1986, il superbo “Easy Living” del 2003 o ancora quel capolavoro di ispirazione lirica che è “Tribe” del 2010. In ogni caso, è impresa ardua poter individuare quale sia il suo lavoro più bello, in quanto ogni disco rappresenta un capitolo a sé stante di una evoluzione continua in cui la sua poetica si è fatta sempre più densa di lirismo, sorretta da una ispirazione magmatica e vibrante. 
Allo stesso modo ridurre il cammino compiuto da Rava alla sola attività discografica appare fin troppo riduttivo. A lui, infatti, si deve la spinta propulsiva che ha proiettato il jazz italiano verso la scena internazionale, e il pregio di aver formato accanto a sé più di una generazione di musicisti, tra i quali, Massimo Urbani, Paolo Fresu, Stefano Bollani, Gianluca Petrella, Giovanni Guidi e Francesco Diodati. Non è tutto. Nello standing artistico del trombettista triestino un ruolo centrale lo ha sempre svolto il palco con centinaia di concerti in tutto il mondo ogni anno e, proprio da un memorabile tour arriva il suo ultimo album “Roma”, disco dal vivo che lo vede protagonista al fianco del sassofonista italo-americano Joe Lovano alla guida di un quartetto stellare completato da Dezron Douglas al contrabbasso, Gerald Cleaver alla batteria e Giovanni Guidi al piano. Nei camerini degli Studios di Roma, poco prima della sua partecipazione a Propaganda Live su La7, abbiamo avuto il privilegio di intervistare Enrico Rava per farci raccontare questo nuovo lavoro, pubblicato dall’ECM, con il quale festeggia alla grande il suo ottantesimo compleanno. 

Il nuovo album “Roma” nasce dall’incontro con il sassofonista americano Joe Lovano e fotografia uno splendido concerto tenuto lo scorso anno all’Auditorium con Giovanni Guidi, Dezron Douglas e Gerald Cleaver. Come nasce l’idea di questo disco dal vivo?
Inizialmente la mia idea era quella di registrare il disco in studio e Manfred Eicher, il patron di ECM, mi ha chiesto di fargli avere una registrazione del concerto per ascoltare il suono del gruppo e, quindi, decidere in quale studio incidere. Gli abbiamo mandato la registrazione del concerto che abbiamo fatto all’Auditorium Parco della Musica di Roma il 10 novembre 2018 e, dopo mezz’ora di ascolto, mi ha mandato un messaggino con scritto “very good indeed”. Poi mi ha chiamato chiedendomi se volevo far uscire su disco proprio quel concerto. Gli ho risposto dicendogli che se fosse stato d’accordo anche Joe Lovano non ci sarebbero stati problemi. E così è stato. Io sono stato ben contento perché avevo un bellissimo ricordo del concerto non solo per la musica, ma soprattutto per il contatto con il pubblico. E’ stato uno di quei concerti che alla fine sei contento di aver fatto perché c’era un bel clima, una di quelle serate particolari in cui la gente viene a complimentarsi e finisci per parlarne a lungo anche con i musicisti. E’ un bel disco, un bel regalo per i miei ottant’anni. La scelta del titolo l’ha fatta Manfred Eicher perché è stato inciso in questa splendida città e gli piaceva che portasse il suo nome. 

Preferisce il live che cristallizza come questo un momento speciale o il lavoro in studio?
In generale preferisco registrare in studio perché dal vivo chiaramente c’è tutta un'altra situazione e passano delle cose che magari in studio non faresti. 
Per esempio, se fai un assolo troppo lungo può non essere noioso invece per gli spettatori è un momento esaltante. Ci sono, poi, gli eventuali errori che inevitabilmente scappano. In studio si può programmare di più. Anche come ascoltatore devo dire che preferisco i dischi incisi in studio, però uno dei più dischi più belli di Miles Davis, se non il più bello in assoluto, è “My Funny Valentine”, registrato dal vivo al Lincoln Center dove, tra l’altro, suonerò nei prossimi giorni. Per me Miles è sempre grandissimo ma in quell’album tocca il massimo del massimo. Non c’è una nota in più o una nota in meno e fa un assolo con un senso drammaturgico e sviluppo della melodia superbo. Probabilmente in studio non sarebbe riuscito a fare una cosa del genere. Insomma, il disco in studio è sempre preferibile ma in certe situazioni il live può essere sublime perché cristallizza un momento che è bene conservare. 

Roma rinnova il sodalizio con la ECM cominciato nel 1975. Che cosa è cambiato in questo lungo percorso…
Non è cambiato quasi niente, l’unica cosa è che siamo tutti un po’ più vecchi. Rispetto al passato, Manfred Eicher sta pubblicando molti più dischi con una visione dallo spettro sempre più ampio. In verità ha sempre avuto questo approccio perché, se uno ci pensa, ha registrato le cose più disparate da “The Köln Concert” di Keith Jarrett all’Art Ensemble of Chicago, dalle brass band ai miei dischi come “Enrico Rava Quartet” del 1978 con Roswell Rudd che, secondo alcuni, è la cosa più lontana da quella che potrebbe essere l’estetica ECM. 
In realtà anche lì c’è un malinteso perché Manfred registra solo i musicisti che gli piacciono e la cui musica ama. Chiaramente il suo gusto incide fortissimamente sull’andamento dell’etichetta ma nel contempo ha una visione talmente aperta che lo porta a pubblicare dischi che vanno dagli Oregon che fanno una specie di world music ante litteram alle cose più selvagge. Tra questi ci metto anche il mio lavoro su Michael Jackson “Rava on the Dance Floor”, un disco dal vivo -registrato anche quello all’Auditorium - che non avrei mai pensato che lui avrebbe pubblicato. Mi era piaciuto molto quel progetto, la musica era bellissima e suonata magnificamente da tutti i musicisti e volevo che uscisse un disco. Per prima cosa mandai a Manfred la registrazione del concerto e, dopo averla ascoltata, mi chiamò subito dicendomi che avremmo fatto il disco. Io fui felicissimo. A parte tutte le cose positive che si possono dire dal punto di vista artistico, dalla cura della copertina allo studio, la ECM ha il pregio che quando fai un disco con loro lo trovi in tutto il mondo e questo specialmente oggi con i dischi che si fanno praticamente per i partenti e gli amici. La ECM, forse anche la Blue Note, è una delle pochissime etichette che ancora esistono nella realtà e anche nell’immaginario della gente. Se esce un disco ECM se ne parla, se lo pubblica pincopallo è molto più difficile e, anche se è un disco meraviglioso, lo ascoltano giusto i parenti e gli amici ed è finita lì. ECM è l’ultimo baluardo di un mondo che amo tantissimo e che, purtroppo, sta sparendo. E’ finita la storia del disco perché ormai c’è la musica liquida che a me non interessa. Non mi piace avere Spotify dove ho duecentomila brani a disposizione, voglio poter avere la possibilità di concentrarmi su un disco. 
Come noto la troppa libertà è una cosa negativa. Quando ero ragazzino, all’età di dieci o undici anni c’erano ancora i 78 giri con tre minuti e mezzo per facciata. Avevo una cinquantina di dischi, tra Bix Beiderbecke, Jelly Roll Morton, Louis Armstrong e anche uno Dizzy Gillespie, e mi ricordo che li conoscevo a memoria perché ero arrivato veramente a penetrare dentro quella musica. Oggi ho migliaia di dischi e, anche prima di Spotify, mi fermavo sempre a chiedermi cosa ascoltare. Questa cosa non va bene per me.

Come avete selezionato i brani in scaletta?
Il concerto durava un’ora e quaranta e ho lasciato a Manfred Eicher la scelta dei brani perché ho piena fiducia. Io avrei dovuto raggiungerlo a Lugano per il mixaggio ma, per motivi di salute, non ho potuto. Ha scelto lui cosa era più funzionale per il disco e cosa eliminare. Paul Motian mi diceva che lui lasciava sempre che Manfred decidesse l’ordine dei brani perché aveva una visione più lontana della sua che era troppo coinvolto e questo poteva comportare delle scelte sbagliate. Credo avesse ragione perché Manfred, non essendo coinvolto emotivamente nei dischi, ha una visione fredda che gli permette di scegliere nel modo più giusto. Secondo me, il disco va benissimo con la scaletta che ha e non poteva andare meglio anche con le cose che sono state escluse.

Come avete lavorato ai brani con questa straordinaria formazione?
Personalmente uso pochissimo gli arrangiamenti. Arrivo con delle idee, do una linea melodica e al massimo scrivo qualche nota. Lo stesso Joe ha portato qualche tema ma poi c’è molta improvvisazione anche nell’esposizione dei temi. 

Le iniziali “interiors” e “Secrets” rappresentano i due lati della stessa medaglia sinuosa ed intensa la prima è giocata in crescendo, articolata e più nervosa la seconda. Come nascono questi due brani?
Questi due brani li ho scritti molti anni fa e anche registrato con altre formazioni. “Interiors” arriva da “New York Days” che ho inciso con Stefano Bollani, Paul Motian, Mark Turner e Larry Grenadier. Quando scrivo qualcosa lo faccio sempre in relazione ai musicisti con cui sto per suonare, poi succede che, vent’anni dopo, il brano possa funzionare benissimo per altri strumentisti ma in genere il mio criterio è quello: penso al gruppo che ho e scrivo qualcosa che possa funzionare bene per loro, permettendogli di suonare con la massima liberà all’interno di una cornice che sono io a decidere. All’interno di quella cornice, però, non ci sono assolutamente obblighi e, per me, possono anche uscire da quello che stanno facendo per entrare in un'altra situazione. Devo dire che più ci sono soprese e più sono contento. A volte accade anche che sono io a farmi delle sorprese.

“Forth Worth” e “Divine Timing” sono, invece, firmate da Joe Lovano…
“Forth Worth” è un blues di ventiquattro misure e quindi dura il doppio rispetto ad un blues normale. E’ un brano molto suonabile e mi ha fatto piacere che ci fosse perché è il brano più jazz del disco se vogliamo parlare di ortodossia in questo senso. “Divine Timing” lascia invece molta libertà un po’ come accade con i miei brani. 

Chiude il disco lo splendido medley che parte dal solo di batteria si evolve in una parte corale e si chiude con “Over The Rainbow” con il piano di Guidi…
In realtà suonavamo questo medley di ballads a metà del concerto, con il solo di batteria, io suonavo “My Funny Valentine” e questo solo di Giovanni Guidi al piano che sfocia in “Over The Rainbow”. Come dicevo prima è importante per me che il musicista si senta libero di uscire dallo schema del brano che sta suonando per entrare in un altro. Giovanni ha fatto proprio questo. Manfred ha giustamente lasciato fuori il resto perché anche così il disco è lungo. Per me il difetto del cd è proprio che, in genere, sono troppo lunghi. Un album per me perfetto non dura più di cinquanta minuti. L’ultimo disco ci Avishai Cohen, uscito per ECM, dura trentacinque minuti. La mia capacità di attenzione verso la musica che ascolto è limitata, un’ora mi va bene, un’ora e mezza comincia ad essere troppo, se si va oltre inizio a pensare ad altro. 

Con Lovano aveva già lavorato in passato: punti comuni?
Io e Joe Lovano abbiamo molti punti di contatto perché abbiamo un simile approccio alla tradizione jazz che consideriamo come qualcosa in movimento, come un punto di partenza per esplorare nuovi territori. Abbiamo la stessa visione totale del jazz, amiamo gli stessi musicisti e il jazz delle origini. In generale questi sono i punti di contatto che ho trovato con tutti i musicisti con cui ho suonato e suono. Sia io che Joe abbiamo vissuto anche l’epoca del free da protagonisti e di quel momento ci è rimasta la mancanza totale di autocensure. Se ho voglia di suonare un tango, lo suono senza chiedermi cosa dirà il pubblico o il critico. Ed ancora se quel tango voglio trasformarlo in una cosa completamente free, lo faccio come suono anche pezzi didattici. Dal canto suo Joe ha suonato con Woody Herman come con il quartetto di Paul Motion con cui faceva una musica di avanguardia. Ad esempio Gianluca Petrella nel suo vocabolario spazia dal dixieland, di cui conosce tutti i brani perché suonava da ragazzino nella band del padre, alla musica elettronica passando per il be-bop e il free jazz. Con Gianluca suono spesso “Art Deco” di Don Cherry che è in realtà un dixieland, genere che adoro e non vedo perché non dovrei suonarlo. Ci sono tanti musicisti che si costruiscono dei recinti, delle gabbie da cui non escono e vogliono presentare la loro immagine in un certo modo, senza che sia possibile alcuna variazione nel loro stile. Io non ho voluto mai essere classificato come un suonatore di free jazz o di fusion o di be-bop o di hard-bop.

Quali sono i suoi ascolti?
Sono un jazzista perché è la musica che so suonare meglio ma amo la musica tou court. Ascolto di tutto. In questo periodo, in particolare, sto ascoltando molto rock, ma anche tanta musica classica. In passato ho ascoltato moltissimo funky. Sono andato a vedere Aretha Franklin all’Apollo Theatre a New York, James Brown. Ho fatto da spalla a Sly & The Family Stone in un tour negli Stati Uniti nel 1969 e sono stato opening act per un concerto di Janis Joplin a Boston. Ho suonato con musicisti di tango come, moltissime volte, ho diviso il palco con Milton Nascimiento e Robertinho Silva a Rio de Janeiro. Oggi come oggi, però, per me è quasi impossibile passare quasi un mese senza ascoltare Bix Beiderbecke. Ci sono brani suoi bellissimi come “I’m coming Virginia”, “Singin' The Blues” e “At The Jazz Band Ball” che non mi stanco mai di ascoltare. Allo stesso modo amo molto il jazz degli anni Trenta: Teddy Wilson, Billie Holiday, per non parlare poi di Charlie Parker, Dizzy Gillespie, Ornette Coleman e, poi, Miles Davis. 

Nel corso della sua carriera ha incrociato spesso anche i suoni del mondo…
Questo fa parte del fatto che a me piace tutta la musica. Nel 1980, quando eravamo in tour in Estremo Oriente con Globe Unity, in cui suonavano anche Albert Mangelsdorff e Steve Lacy, abbiamo fatto un concerto in India con il quartetto tipico di Madras. Quando suonavo con Roswell Rudd, grandissimo trombonista e personaggio geniale, ho avuto modo di ascoltare moltissime field recordings di Alan Lomax con il quale lui aveva collaborato. 
Erano musiche che non avevo mai ascoltato nella mia vita e che mi hanno affascinato. A New York, Roswell aveva un piccolo ufficio dove aveva tutti questi nastri registrati in giro per il mondo da Lomax e lui li trascriveva per le scuole di musica e le università. Io andavo spessissimo nel suo ufficio e passavo ore ad ascoltare queste registrazioni. Erano musiche pazzesche. Mi colpirono molto i nastri registrati in Burundi e quelle degli indiani Hopi che secondo lui erano i più musicali di tutti. In concerto spesso suonavamo anche questi brani dei nativi americani che Roswell aveva trascritto. Ho avuto modo di ascoltare abbastanza da vicino musiche che, in genere, non si ascoltano perché, ad esempio, la musica africana che ci arriva è sempre quella più commerciale. 

Quest’anno ha compiuto ottanta’anni, festeggiato con uno speciale tour con molti ospiti....
In realtà lo chiamiamo tour ma è una serie di concerti in giro per il mondo perché io fondamentalmente suono tutto l’anno. Lo hanno presentato come tour per gli ottant’anni ma non è che ci tenessi molto perché cerco di dimenticare questa cosa. Obiettivamente ottant’anni sono tanti e, indipendentemente da come mi senta, il tempo che mi sarà regalato è molto limitato e su questo non c’è alcun dubbio. Per lungo che sia è sempre poco ed infinitamente meno di quello che ho vissuto. Quando penso a questa cosa non la vivo benissimo. 

Concludendo. Quali sono i progetti in cantiere?
Il mio progetto è quello di suonare e studiare tanto. L’idea è quella che o si migliora continuamente o si peggiora. Non esiste una via di mezzo. Se non si lavora per migliorare ovviamente c’è una involuzione. Peggiorare non va bene, soprattutto alla mia età, perché poi sarebbe molto difficile ritornare ai livelli di prima e risalire la china. Il recupero da qualsiasi cosa è molto complesso. 



Enrico Rava/Joe Lovano – Roma (ECM, 2019)
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“Ho incontrato per la prima volta Joe Lovano, circa trentacinque anni fa a Messina. Eravamo in un teatro stracolmo con i suoi parenti che erano venuti a vederlo perché lui ha origini siciliane. Successivamente ci siamo ritrovati per un concerto in cui avevamo coinvolto anche Miroslav Vitous e di cui è rimasto un bellissimo ricordo. Vent’anni fa ci siamo ritrovati per un tour insieme che andò molto bene”. Così Enrico Rava racconta le sue frequentazioni artistiche con il sassofonista italo-americano, cresciuto a Cleveland e formatosi nell’orchestra di Thad Jones e Mel Lewis, per poi approdare a New York dove si è segnalato per il suo sound moderno come uno dei più originali musicisti della scena degli anni Ottanta e Novanta. A distanza di vent’anni questa fortunata collaborazione viene finalmente cristallizzata con il nuovo album “Roma”, registrato dal vivo il 10 novembre del 2018 all’Auditorium del Parco della Musica di Roma a corollario di un fortunato tour alla guida di un quintetto straordinario completato da Giovanni Guidi al pianoforte, Dezron Douglas al contrabbasso e Gerald Cleaver alla batteria. L’ascolto svela un vero e proprio gioiello che suggella la perfetta intesa tra Rava e Lovano con i cinque brani in scaletta che diventano l’occasione per esaltare le voci strumentali di ciascuno dei musicisti a ritagliarsi, in piena libertà, il ruolo da protagonista.  A dettare tessere le fila dei brani è il piano di Guidi che scandisce i tempi, dialoga con la sezione ritmica e costruisce una cornice perfetta in cui si muovono i due leader. Ad aprire il disco è la splendida “Interiors” di Rava, già ascoltata su “New York Days” del 2008, e qui riproposta il una nuova versione che ne esalta la melodia sinuosa nella quale si stagliano piano, flicorno e sax. Si prosegue con le irrequiete increspature di “Secrets”, firmata sempre dal triestino e tratta dal disco omonimo del 1987 (già riletta anche in “The Words And The Days”), in cui i fiati si alternano alla guida dal brano supportate magistralmente dalla sezione ritmica. Se il superbo blues “Forth Worth” di Joe Lovano con il suo swing ci rimanda a pagine memorabili di Ornette Coleman e Dewey Redman, la successiva “Divine Timing” è l’unico inedito del disco e ci regala uno dei suoi momenti più alti per intensità dell’interplay. Chiude il disco, un lungo medley in cui si susseguono “Drum Song”, in cui troviamo Lovano al tarogato, strumento tradizionale dell’est europeo, la brillante rilettura di “Spiritual” di John Coltrane e lo standard “Over The Rainbow” pennellato da Guidi in solo al pianoforte. “Roma” è, dunque, un altro caposaldo della produzione di Enrico Rava, un disco che celebra come meglio non sarebbe stato possibile i suoi ottanta anni “suonati”.



Salvatore Esposito

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