

Il nuovo album “Roma” nasce dall’incontro con il sassofonista americano Joe Lovano e fotografia uno splendido concerto tenuto lo scorso anno all’Auditorium con Giovanni Guidi, Dezron Douglas e Gerald Cleaver. Come nasce l’idea di questo disco dal vivo?

Preferisce il live che cristallizza come questo un momento speciale o il lavoro in studio?
In generale preferisco registrare in studio perché dal vivo chiaramente c’è tutta un'altra situazione e passano delle cose che magari in studio non faresti.
Roma rinnova il sodalizio con la ECM cominciato nel 1975. Che cosa è cambiato in questo lungo percorso…
Non è cambiato quasi niente, l’unica cosa è che siamo tutti un po’ più vecchi. Rispetto al passato, Manfred Eicher sta pubblicando molti più dischi con una visione dallo spettro sempre più ampio. In verità ha sempre avuto questo approccio perché, se uno ci pensa, ha registrato le cose più disparate da “The Köln Concert” di Keith Jarrett all’Art Ensemble of Chicago, dalle brass band ai miei dischi come “Enrico Rava Quartet” del 1978 con Roswell Rudd che, secondo alcuni, è la cosa più lontana da quella che potrebbe essere l’estetica ECM.


Come avete selezionato i brani in scaletta?
Il concerto durava un’ora e quaranta e ho lasciato a Manfred Eicher la scelta dei brani perché ho piena fiducia. Io avrei dovuto raggiungerlo a Lugano per il mixaggio ma, per motivi di salute, non ho potuto. Ha scelto lui cosa era più funzionale per il disco e cosa eliminare. Paul Motian mi diceva che lui lasciava sempre che Manfred decidesse l’ordine dei brani perché aveva una visione più lontana della sua che era troppo coinvolto e questo poteva comportare delle scelte sbagliate. Credo avesse ragione perché Manfred, non essendo coinvolto emotivamente nei dischi, ha una visione fredda che gli permette di scegliere nel modo più giusto. Secondo me, il disco va benissimo con la scaletta che ha e non poteva andare meglio anche con le cose che sono state escluse.
Personalmente uso pochissimo gli arrangiamenti. Arrivo con delle idee, do una linea melodica e al massimo scrivo qualche nota. Lo stesso Joe ha portato qualche tema ma poi c’è molta improvvisazione anche nell’esposizione dei temi.
Le iniziali “interiors” e “Secrets” rappresentano i due lati della stessa medaglia sinuosa ed intensa la prima è giocata in crescendo, articolata e più nervosa la seconda. Come nascono questi due brani?
Questi due brani li ho scritti molti anni fa e anche registrato con altre formazioni. “Interiors” arriva da “New York Days” che ho inciso con Stefano Bollani, Paul Motian, Mark Turner e Larry Grenadier. Quando scrivo qualcosa lo faccio sempre in relazione ai musicisti con cui sto per suonare, poi succede che, vent’anni dopo, il brano possa funzionare benissimo per altri strumentisti ma in genere il mio criterio è quello: penso al gruppo che ho e scrivo qualcosa che possa funzionare bene per loro, permettendogli di suonare con la massima liberà all’interno di una cornice che sono io a decidere. All’interno di quella cornice, però, non ci sono assolutamente obblighi e, per me, possono anche uscire da quello che stanno facendo per entrare in un'altra situazione. Devo dire che più ci sono soprese e più sono contento. A volte accade anche che sono io a farmi delle sorprese.
“Forth Worth” è un blues di ventiquattro misure e quindi dura il doppio rispetto ad un blues normale. E’ un brano molto suonabile e mi ha fatto piacere che ci fosse perché è il brano più jazz del disco se vogliamo parlare di ortodossia in questo senso. “Divine Timing” lascia invece molta libertà un po’ come accade con i miei brani.
Chiude il disco lo splendido medley che parte dal solo di batteria si evolve in una parte corale e si chiude con “Over The Rainbow” con il piano di Guidi…
In realtà suonavamo questo medley di ballads a metà del concerto, con il solo di batteria, io suonavo “My Funny Valentine” e questo solo di Giovanni Guidi al piano che sfocia in “Over The Rainbow”. Come dicevo prima è importante per me che il musicista si senta libero di uscire dallo schema del brano che sta suonando per entrare in un altro. Giovanni ha fatto proprio questo. Manfred ha giustamente lasciato fuori il resto perché anche così il disco è lungo. Per me il difetto del cd è proprio che, in genere, sono troppo lunghi. Un album per me perfetto non dura più di cinquanta minuti. L’ultimo disco ci Avishai Cohen, uscito per ECM, dura trentacinque minuti. La mia capacità di attenzione verso la musica che ascolto è limitata, un’ora mi va bene, un’ora e mezza comincia ad essere troppo, se si va oltre inizio a pensare ad altro.
Io e Joe Lovano abbiamo molti punti di contatto perché abbiamo un simile approccio alla tradizione jazz che consideriamo come qualcosa in movimento, come un punto di partenza per esplorare nuovi territori. Abbiamo la stessa visione totale del jazz, amiamo gli stessi musicisti e il jazz delle origini. In generale questi sono i punti di contatto che ho trovato con tutti i musicisti con cui ho suonato e suono. Sia io che Joe abbiamo vissuto anche l’epoca del free da protagonisti e di quel momento ci è rimasta la mancanza totale di autocensure. Se ho voglia di suonare un tango, lo suono senza chiedermi cosa dirà il pubblico o il critico. Ed ancora se quel tango voglio trasformarlo in una cosa completamente free, lo faccio come suono anche pezzi didattici. Dal canto suo Joe ha suonato con Woody Herman come con il quartetto di Paul Motion con cui faceva una musica di avanguardia. Ad esempio Gianluca Petrella nel suo vocabolario spazia dal dixieland, di cui conosce tutti i brani perché suonava da ragazzino nella band del padre, alla musica elettronica passando per il be-bop e il free jazz. Con Gianluca suono spesso “Art Deco” di Don Cherry che è in realtà un dixieland, genere che adoro e non vedo perché non dovrei suonarlo. Ci sono tanti musicisti che si costruiscono dei recinti, delle gabbie da cui non escono e vogliono presentare la loro immagine in un certo modo, senza che sia possibile alcuna variazione nel loro stile. Io non ho voluto mai essere classificato come un suonatore di free jazz o di fusion o di be-bop o di hard-bop.
Sono un jazzista perché è la musica che so suonare meglio ma amo la musica tou court. Ascolto di tutto. In questo periodo, in particolare, sto ascoltando molto rock, ma anche tanta musica classica. In passato ho ascoltato moltissimo funky. Sono andato a vedere Aretha Franklin all’Apollo Theatre a New York, James Brown. Ho fatto da spalla a Sly & The Family Stone in un tour negli Stati Uniti nel 1969 e sono stato opening act per un concerto di Janis Joplin a Boston. Ho suonato con musicisti di tango come, moltissime volte, ho diviso il palco con Milton Nascimiento e Robertinho Silva a Rio de Janeiro. Oggi come oggi, però, per me è quasi impossibile passare quasi un mese senza ascoltare Bix Beiderbecke. Ci sono brani suoi bellissimi come “I’m coming Virginia”, “Singin' The Blues” e “At The Jazz Band Ball” che non mi stanco mai di ascoltare. Allo stesso modo amo molto il jazz degli anni Trenta: Teddy Wilson, Billie Holiday, per non parlare poi di Charlie Parker, Dizzy Gillespie, Ornette Coleman e, poi, Miles Davis.
Nel corso della sua carriera ha incrociato spesso anche i suoni del mondo…
Questo fa parte del fatto che a me piace tutta la musica. Nel 1980, quando eravamo in tour in Estremo Oriente con Globe Unity, in cui suonavano anche Albert Mangelsdorff e Steve Lacy, abbiamo fatto un concerto in India con il quartetto tipico di Madras. Quando suonavo con Roswell Rudd, grandissimo trombonista e personaggio geniale, ho avuto modo di ascoltare moltissime field recordings di Alan Lomax con il quale lui aveva collaborato.

Quest’anno ha compiuto ottanta’anni, festeggiato con uno speciale tour con molti ospiti....
In realtà lo chiamiamo tour ma è una serie di concerti in giro per il mondo perché io fondamentalmente suono tutto l’anno. Lo hanno presentato come tour per gli ottant’anni ma non è che ci tenessi molto perché cerco di dimenticare questa cosa. Obiettivamente ottant’anni sono tanti e, indipendentemente da come mi senta, il tempo che mi sarà regalato è molto limitato e su questo non c’è alcun dubbio. Per lungo che sia è sempre poco ed infinitamente meno di quello che ho vissuto. Quando penso a questa cosa non la vivo benissimo.
Concludendo. Quali sono i progetti in cantiere?
Il mio progetto è quello di suonare e studiare tanto. L’idea è quella che o si migliora continuamente o si peggiora. Non esiste una via di mezzo. Se non si lavora per migliorare ovviamente c’è una involuzione. Peggiorare non va bene, soprattutto alla mia età, perché poi sarebbe molto difficile ritornare ai livelli di prima e risalire la china. Il recupero da qualsiasi cosa è molto complesso.
Enrico Rava/Joe Lovano – Roma (ECM, 2019)

“Ho incontrato per la prima volta Joe Lovano, circa trentacinque anni fa a Messina. Eravamo in un teatro stracolmo con i suoi parenti che erano venuti a vederlo perché lui ha origini siciliane. Successivamente ci siamo ritrovati per un concerto in cui avevamo coinvolto anche Miroslav Vitous e di cui è rimasto un bellissimo ricordo. Vent’anni fa ci siamo ritrovati per un tour insieme che andò molto bene”. Così Enrico Rava racconta le sue frequentazioni artistiche con il sassofonista italo-americano, cresciuto a Cleveland e formatosi nell’orchestra di Thad Jones e Mel Lewis, per poi approdare a New York dove si è segnalato per il suo sound moderno come uno dei più originali musicisti della scena degli anni Ottanta e Novanta. A distanza di vent’anni questa fortunata collaborazione viene finalmente cristallizzata con il nuovo album “Roma”, registrato dal vivo il 10 novembre del 2018 all’Auditorium del Parco della Musica di Roma a corollario di un fortunato tour alla guida di un quintetto straordinario completato da Giovanni Guidi al pianoforte, Dezron Douglas al contrabbasso e Gerald Cleaver alla batteria. L’ascolto svela un vero e proprio gioiello che suggella la perfetta intesa tra Rava e Lovano con i cinque brani in scaletta che diventano l’occasione per esaltare le voci strumentali di ciascuno dei musicisti a ritagliarsi, in piena libertà, il ruolo da protagonista. A dettare tessere le fila dei brani è il piano di Guidi che scandisce i tempi, dialoga con la sezione ritmica e costruisce una cornice perfetta in cui si muovono i due leader. Ad aprire il disco è la splendida “Interiors” di Rava, già ascoltata su “New York Days” del 2008, e qui riproposta il una nuova versione che ne esalta la melodia sinuosa nella quale si stagliano piano, flicorno e sax. Si prosegue con le irrequiete increspature di “Secrets”, firmata sempre dal triestino e tratta dal disco omonimo del 1987 (già riletta anche in “The Words And The Days”), in cui i fiati si alternano alla guida dal brano supportate magistralmente dalla sezione ritmica. Se il superbo blues “Forth Worth” di Joe Lovano con il suo swing ci rimanda a pagine memorabili di Ornette Coleman e Dewey Redman, la successiva “Divine Timing” è l’unico inedito del disco e ci regala uno dei suoi momenti più alti per intensità dell’interplay. Chiude il disco, un lungo medley in cui si susseguono “Drum Song”, in cui troviamo Lovano al tarogato, strumento tradizionale dell’est europeo, la brillante rilettura di “Spiritual” di John Coltrane e lo standard “Over The Rainbow” pennellato da Guidi in solo al pianoforte. “Roma” è, dunque, un altro caposaldo della produzione di Enrico Rava, un disco che celebra come meglio non sarebbe stato possibile i suoi ottanta anni “suonati”.
Salvatore Esposito