English Folk Expo/Manchester Folk Festival, Manchester, Uk, 17-19 ottobre 2019

La settima edizione dell’English Folk Expo, la piattaforma espositiva della folk music e musica acustica albionica, non soltanto ha rinsaldato il legame con il Festival Folk che si svolge a Manchester, una delle città più dinamiche sul piano culturale, ma ha avuto come prodromo l’assegnazione dei BBC Radio 2 Folk Awards, attribuiti nella serata di mercoledì 16 ottobre alla Bridgewater Hall. Colpisce che alcuni dei Premi dell’ente radio-televisivo pubblico non siano andati ad artisti britannici: è il caso degli irlandesi Dervish (Premio alla carriera condiviso con l’ottuagenario chitarrista inglese Wizz Jones), che quest’anno hanno dato alle stampe il loro celebrativo disco sul Grande Canzoniere Irlandese, o del duo Ye Vagabonds (vincitori con il miglior brano tradizionale, “The Foggy Dew”) o del musicista dell’anno, Seckou Keita, suonatore di kora senegalese, trapiantato nell’isola da molti anni e partner musicale dell’arpista gallese Catrin Finch (premiati come miglior duo). Da segnalare il riconoscimento quale Best Album dell’anno andato ai gallesi Trials of Cato (“Hide and Hair”), il premio Horizon, riservato all’artista emergente, conferito al giovane talento delle small pipes, la scozzese Brìghde Chaimbeul, e la folk singer 2019, che è risultata l’eclettica cantante di Armagh Rioghnac Connolly, mentre di Karine e Steven Polwart è la migliore canzone originale (“I Burn but I am not Consumed”). Insomma, se dovessimo mettere in relazione queste scelte con la tribolata e confusa congiuntura politica che attraversa il Paese, ci sembra che le aperture musicali siano un segno di una precisa volontà di non rinchiudersi nel proprio ovile musicale (e come si potrebbe, poi, considerata la millenaria circolazione dei materiali popolari?). 
Un’apertura e una volontà di connettersi risuonate più volte e ribadite da musicisti e da organizzatori, quasi a volere esorcizzare i possibili scenari poco nitidi con cui si potrebbe confrontare l’industria culturale britannica, nel corso dei giorni del Folk Festival e dell’Expo. E veniamo proprio alla manifestazione dell’industria musicale folk inglese, che ha accolto delegati provenienti sia da varie parti dell’isola che dall’estero (la testata “Blogfoolk” era tra gli invitati) al fine di fare rete e promuovere sulla scena internazionale i propri artisti. Non sono mancati momenti ufficiali come una sobria cerimonia d’apertura con il CE dell’EFEX, Tom Besford, e David Agnew, direttore del Manchester Folk Festival, e una reception presenziata dal sindaco della città. Venendo ai momenti più significativi della parte concertistica - l’Expo ha previsto anche una sezione fieristica, che si è dipanata la mattina di sabato 19 con incontri e contatti tra professional di festival e agenzie - va detto che seppure non si possa parlare di una vetrina completa dei fermenti folk di tutta la Gran Bretagna, il livello dell’offerta è stato molto elevato, con artisti consolidati e non poche scoperte. Tra le prime a salire sul palco del centro polifunzionale Home (che ospita teatri, cinema e un caffe e un ristorante) è stata Rowan Rheingans, protagonista in solo di “Dispatches on the Red Dress”, un recital diviso tra musica, canto e recitativo (Rowan suona banjo, violino, chitarra e usa delle basi pre-registrate), imperniato sulla storia della nonna nella Germania degli anni ’40 del Novecento. 
Uno spettacolo costruito sul filo della memoria personale e pubblica, molto suggestivo e raffinato, messo purtroppo in contemporanea con “Rising Up”: Peterloo 2019” , sui luttuosi eventi di St. Peter’s Field del 1819, spettacolo che unisce narrazione e canto. Quello dell’incontro intimo tra memoria personale, storia orale e grande storia sembra essere uno dei filoni più fertili di certo folk più colto (pensiamo a Sam Sweeney e al suo “Unifinished Violin”). In questa prospettiva va analizzata anche la performance di Belinda O’Hooley (sabato 19), che al piano e alla voce (anche qui canto, narrazione e recitativo) ha presentato l’album “Inversions” (No Masters, www.ohooleyandtidow.com), autobiografia familiare di un’artista di origini irlandesi (il suo papà, scomparso due anni fa, era un immigrato irlandese arrivato in Gran Bretagna negli anni ‘50), figura sorprendente per sensibilità emozionale nella riproposta di celebri brani irlandesi in versione strumentale (tra cui “The Swallaw’s tail”, “Skiberreen” e “Danny Boy”). Se il raccoglimento poetico è stato uno delle cifre del festival, non si può che mettere l’accento su quei set che, invece, hanno acceso il pubblico per la potenza della performance. Qui dobbiamo necessariamente parlare del persuasivo set di Grace Petrie, in scena nel club Gorilla (giovedì 17). La cantautrice nativa di Leicester è un’indomita e urticante songstress dalla voce vigorosa: ascoltate “A Young Woman’s Tale” che apre il suo disco “Queer as Folk”, uno dei best contemporary folk album del 2018. Sempre dall’album d’esordio ha presentato “Farewell to Welfare” e “Black Tie”, ma anche nuove song, 
dove si esplicita una posizione politica senza compromessi, presentata con immancabile, sagace ironia, come succede in “Nobody knows I’m a fraud” e in “No such thing to be a Protest Singer”. Nello stesso club, prima di Petrie, si erano esibita la combriccola all-female delle She Shanties, protagoniste con la loro polivocalità fatta di pochi fronzoli e molto diretta (cercate il loro disco “Futtock Shroud”). Occupiamoci della ricca programmazione di venerdì 18, che parte con gli showcase al Comedy Store, curati dall’’English Folk and Dance and Song Society. Qui abbiamo ascoltato un artista che non può passare inosservata: si tratta di Thom Ashworth, singer dotato di una voce che sa come dare il passo giusto alle liriche e di un basso acustico a quattro corde con cui accompagna traditional e song originali. “Head Canon” è il suo disco di debutto, incensato sia da “fRoots” che da “Songlines”. È toccato poi all’abile violinista originaria di Sheffield Nicola Beazley con un interessante approccio, che fonde numeri da danza guidati dal violino che incontrano la tradizione fiatistica delle brass band, anch’essa formata da giovanissimi strumentisti (Nicola ha appena inciso un EP intitolato “Echoes”) . Più navigato ma altrettanto interessante il sound del carismatico Damien & The Omen, Da notare che gli artisti che si sono esibiti hanno preso parte a un programma finanziato con borse di studio previsto dalla EFDSS (il Creative Seed Bursary). Ci si è spostati nella interessante Whirworth Art Gallery (una galleria d’arte contemporanea) per la Scottish Reception, l’insieme di showcase presentati dalla Scozia (il partner “internazionale per prossimo anno sarà l’Irlanda). 
Qui oltre alla buona propulsione offerta da Ross Ainsle & Ali Hutton Symbiosis e dai Gnoss, ci siamo deliziati (oltre che con ottimi haggis e tatties) con la già citata Brìghde Chaimbeul, di soli venti anni, originaria dell’isola di Skye, solista delle small pipes, in cui l’aria è insufflata dal mantice. Chaimbeul interpreta arie gaeliche, irlandesi e di Cape Breton con escursioni nel repertorio bulgaro e mostra grandi doti tecniche ed esecutive (“The Reeling” è il suo eccellente disco esordio). Difetta un po’ di comunicativa (consideriamo però la sua giovane età), aspetto necessario in un concerto di sole pipes. Di estroversione non difettano, invece, i Talisk (violino, chitarra e concertina), trio che afferra lo spettatore con la sua propulsione e il suo dinamismo, ma soprattutto con la spettacolare presenza scenica e destrezza del suonatore di concertina Mohsen Amini (musicista dell’anno nel 2018 per la BBC). I Talisk hanno all’attivo due album, di cui “Beyond” (2018) ha ottenuto notevoli riscontri di pubblico e critica: siete avvertiti. Di nuovo al Comedy Store, si è fatto apprezzare la voce tenorile di Reg Meuross, che si accompagna a chitarra, armonica e dulcimer. La sera del venerdì ci ha riservato l’approccio da storyteller della songwriter Maz O’Connor, il sound di matrice Americana di Marry Waterson e Emily Barker ma, soprattutto, la consolidata coppia artistica e di vita costituita da Kathryn Roberts e Sean Lakeman, due artisti che godono, giustamente, di grande reputazione per le eccellenti doti canore di lei e per il duttile stile chitarristico di lui, per la capacità del duo di promuovere un versatile repertorio contemporary folk che passa dalle 
ballate di tradizione al tributo a Sandy Danny fino allo Springsteen di “Matamoros Banks”. Spastondoci al pomeriggio di sabtao 19, abbiamo riammirato in scena la vibrante propulsione dei Talisk, le danze eterodosse di The Demon Barber, la già citata Belinda O’Hooley, l’eco-folk della vocalist cristallina Kitty MacFarlane (il suo “Namer of Clouds” del 2018 contiene una canzone ispirata dalla figura di Chiara Vigo, maestro della tessitura del bisso a Sant’Antioco) e il minimalismo traditional di Nick Hart. Gli headliner della serata conclusiva sono stati due, anzitutto, il gruppo del Northumberland The Unthanks, formato dalle due sorelle Rachel e Becky Unthank con Adrian McNally, con il suo raffinato shhow dedicato al duecentesimo anniversario della nascita della conterranea Emily Brontë, tratto dalla trilogia discografica “Lines”, costruita su un ciclo di canzoni di ispirazione poetica nel quale The Unthanks hanno musicato liriche dell’autrice di “Cime Tempestose”. Diversa atmosfera, invece, creatasi al Manchester Central Convention Complex, che ha accolto l’esibizione della folk singer Kate Rusby, opening act il bluegrass delle Midnight Skyracer. Si sa che Rusby è ormai una stella del folk britannico, consacrata da una messe di album di gran pregio. È una vocalist e performer matura per padronanza della materia e per la solida leggerezza con cui tiene la scena da provata intrattenitrice, coadiuvata da una band di ottima levatura (bouzouki, organetto, contrabbasso e chitarra) in cui spicca suo marito, il chitarrista e produttore Damien O’Kane. Rusby ha presentato brani del suo ultimo ottimo lavoro, “Philosophers, Poets & Kings”, ma la scaletta dell’artista dello Yorkshire ha attinto a un repertorio più vasto, con melodie
pregnanti di memoria collettiva. Insomma, con Kate Rusby la tradizione è sempre in movimento: è un’artista che canta con la stessa intensità folk un’antica ballata, un brano dei Fairport e uno di Noel Gallagher. Cosa chiedere di più? Nell’arco dei sei giorni il Manchester Folk Festival, naturalmente, ha proposto molto altro in termini di concerti e attività di gruppo, ma la sovrapposizione dei concerti non ha consentito di vedere davvero tutto. Va detto che la tre giorni dell’English Folk Expo ha offerto ai delegati la possibilità di accedere ai concerti del Late Night Bar (dalle 23.00 all’una di notte) nel ristorante dell’Home, da apprezzare tra una chiacchiera e una squisita Ale. Qui gli artisti più giovani si sono proposti in tre brevi set della durata di circa venticinque minuti. Tra gli altri, abbiamo avuto modo di apprezzare il canto sempre ispirato di Holly Clarke, originaria del Lake District, e quello dell’altrettanto interessante Hollie Rogers. Si sono rivelate le qualità strumentali del duo Broom Bezzums e dello Shackleton Trio e il fresco approccio al canto folk di Julu Irvine e Heg Brignall. Infine, una songwriter molto originale nel suo approccio (solo voce e ukulele) come Amy May Ellis, Di certo, nomi di cui occorrerà tenere conto. In definitiva, un’edizione riuscita dell’English Folk Expo che, lavorando in sinergia con il palinsesto urban folk del Manchester Folk Festival, ha assicurato un programma fitto di eventi, aprendo un’ampia finestra sulle più significative produzioni musicali isolane.



Ciro De Rosa

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