Umbria Jazz, Perugia, 12-21 luglio 2019

Umbria Jazz ha portato a Perugia musica e musicisti di prima classe. Soprattutto, è il caso di dire (come considerazione generale e senza nulla togliere a chi la musica la fa), ha portato un grande programma di festa e cultura. Organizzato, come sempre, dentro una prospettiva internazionale, ma orientato dalla forza della scena, del palco, della performance qui e ora, night and day, on and off stage. Se, nei giorni di festival, si passeggia nell’acropoli perugina la mattina presto, si riesce a percepire la vibrazione della notte appena conclusa, durante la quale la musica ha risuonato ovunque: dai grandi palchi gratuiti posizionati alle due estremità di Corso Vannucci, la via principale della città (uno in piazza IV Novembre e l’altro ai Giardini Carducci), all’Arena di Santa Giuliana (il main stage alle porte del centro storico), dal jazz in the museum (alla Galleria Nazionale dell’Umbria) alla raffinata cornice del Teatro Morlacchi, fino alle jam, che si protraggono nei locali del centro, e ai tanti musicisti che si appollaiano lungo le vie con strumenti e cappello. 
Insomma, la festa c’è e si sente, perché intorno alla macchina organizzativa (sempre più equilibrata) si mobilitano un pò tutti, contribuendo (non sempre condividendone fino in fondo lo spirito) a un evento inevitabilmente “totale”, che avvolge una città che ormai ha più o meno capito come accogliere migliaia di persone, rifacendosi il trucco per dieci giorni e tirando fuori, nei casi più lodevoli, qualche idea illuminata per sprovincializzarsi il più possibile. D’altronde basta seguire il faro di Umbria Jazz, lasciarsi illuminare e partecipare come si può ad accogliere, promuovere, festeggiare. Mi sembra che questa prospettiva partecipativa sia in parte percorsa dai cittadini e soprattutto da chi in città gestisce spazi pubblici, dove, soprattutto nei week end, si possono spesso apprezzare concerti organizzati privatamente - appunto per partecipare dell’atmosfera - così come un novero di iniziative “tematiche” a corollario dell’evento. Rientra in questo quadro - anche se non si tratta di un’iniziativa privata ma, al contrario, pianificata dentro un programma volto ad aprire al pubblico musicale gli spazi più importanti della città - “Closed session”, la mostra fotografica di Jimmy Katz, 
che immortala il gota del jazz in poco meno di cento scatti sullo sfondo di una New York mai stanca e ripetitiva. Le foto sono esposte alla Sala Podiani della Galleria Nazionale dell’Umbria e fanno anche da cornice al micro-festival “Jazz goes to the museum”: un programma calibrato sullo spazio di una delle sale più scenografiche della città, che ha visto la partecipazione di artisti straordinari, tra cui il duo Gialuigi Trovesi e Gianni Coscia, il Fred Hersch Trio, Fabrizio Bosso e Julian Oliver Mazzariello, il progetto “Melodic Ornette Coleman” di Joachim Kühn, i “PIano Tales” di Enrico Zanisi, la musica di Tom Jobim in “Eu te amo” di Daniele Di Bonaventura, Giovanni Ceccarelli e Jaques Morelenbaum, “Soul of the base” di John Patitucci. Sarebbe difficile scindere tra la qualità della proposta e l’offerta quantitativamente massiccia di un cartellone sempre più articolato. Anzi, è oramai evidente che la confluenza di queste due direttrici determina il carattere innovativo di Umbria Jazz che, forte delle location dei concerti e, in generale, della bellezza della città che li ospita, si concentra sempre di più sulla coerenza del proprio profilo culturale (leggi anche i programmi per i bambini raccolti sotto la sigla “UJ for kids”,
così come un orientamento più netto verso l’ambientalismo e il plastic-free). In questa direzione vanno ovviamente le scelte artistiche che alternano le tante forme e derivazioni di jazz con un pop-rock più mainstream, con buona pace di chi insiste sulla necessità di un programma “purista” ed esclusivo. D’altronde, come dicevo, i jazz sono tanti e ognuno ha modo di seguire il canale che più predilige: quest’anno c’è stato quello di Paolo Conte, che ha festeggiato i cinquant’anni di “Azzurro”, quello di George Benson o di Michel Camilo, quello di ispirazione spagnola presentato da Chick Corea & The Spanish Heart Band, ma anche Kamasi Washington, Lauryn Hill, Mauro Ottolini, Fabrizio Bosso, Roberto Gatto, Nik West. Ecco, immaginiamo la varietà di tante interpretazioni che, nell’arco di dieci giorni e dieci notti, risuonano con le “presenze” di artisti quali Thom Yorke (con special guest Andrea Belfi), King Crimson, Nick Mason e i suoi Saucerful of Secrets. Insomma, ci si ferma solo a fine festival, perché ogni singolo concerto e artista attraggono irresistibilmente, e se ne coglie tutta la profondità solo se li si allaccia a
tutto il resto: una spirale di grandi artisti che avvolge e stringe migliaia di persone dentro uno spazio di musica e piacere, estremamente permeabile e cangiante. In questo quadro, ho colto, ad esempio, nella grandezza di Mason e i suoi sodali (Guy Pratt al basso, Gary Kemp e Lee Harris alle chitarre, Dom Beken alle tastiere), l’importanza imprescindibile che i brani eseguiti, selezionati, come è noto, nel repertorio dei primissimi Pink Floyd, hanno avuto per la musica popolare occidentale. Non solo in riferimento a quella psichedelica, ma anche al pop-rock inglese e agli sviluppi che ha avuto soprattutto negli anni Novanta. Uno dei concerti più di impatto è stato quello dei King Crimson, che hanno festeggiato anche a Perugia i cinquant’anni di carriera. L’Arena era colma e il suono della band di Fripp ha invaso lo spazio con una determinazione straordinaria, sostenuto dalle tre batterie e da un incedere sempre compatto di tutta la formazione. Tra i momenti più emozionanti non posso non citare la performance di Robben Ford, che ha inaugurato il main stage dell’Arena di Santa Giuliana con poco più di un’ora di musica “sacra”, come solo lui può fare, piena, forte, semplicemente naturale, giusta. 
Ha rappresentato come meglio non si poteva la linearità di questa edizione di Umbria Jazz, aprendo con la sua chitarra perfetta un festival perfetto, in cui tutto si è allineato quasi con autonomia, con naturalità. Questo significa anche che è stato scelto l’artista migliore per inaugurare e al tempo stesso rappresentare il corso della kermesse: musica decisa, mani sapienti, talento. Al contrario di chi ha interpretato la presenza di Ford a inizio sera del primo giorno come una penalizzante e non riconoscente “apertura” del concerto (seguitissimo) di Alex Britti e Max Gazzè, accompagnati da Manu Katché e Flavio Boltro, io riconosco in questo ordine di esibizione una scelta eminentemente “artistica”, orientata cioè dal valore di quella presenza, di quella forza che solo quel musicista poteva portare su quel palco. Ed era giusto portarla in quel preciso momento, per dare il primo “la”: (appunto) deciso, sapiente, suonato con maestria e talento. 


Daniele Cestellini

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