Jacopo Perosino – Retrò (Isola Tobia Label, 2019)

Non si sa da dove cominciare per raccontare tutte le reazioni, le suggestioni, i rimandi intellettuali, le tecniche musicali e teatrali, le influenze letterarie (quelle palesi e quelle occulte), le critiche, le perplessità, il compiacimento soddisfatto che l’album di esordio di Jacopo Perosino “Retrò” hanno suscitato a chi scrive. Bisogna ad ogni modo provare a far ordine nell’immaginario così rigoglioso del cantautore astigiano.. che poi ci sarebbe già molto da dire sulle sue origini, per cominciare a capire: astigiano di nascita, ma anche abruzzese e siciliano (e qualche altra cosa ancora), l’anima di Perosino è nomade nello spazio e nel tempo. L’autore non resta fermo a guardare dietro i muri della Fortezza Bastiani, ma affronta il “Deserto dei Tartari”, incontra fantasmi e costruisce uno scenario (da intendere anche in senso francese) dove le influenze visive e letterarie del primo Novecento si confondono con i non luoghi e i non tempi di questa nostra società così ferocemente virtuale. Il riferimento all’ansia di vita del Deserto di Dino Buzzati non è ovviamente casuale: questo album è liberamente ispirato a un’opera del grande autore italiano, dal titolo “Il Mantello”: storia fantastica di un uomo morto in guerra, a cui la Morte ha concesso il ritorno a casa per congedarsi dai suoi cari e dai suoi luoghi, dai suoi ricordi, dalla sua vita. In qualche modo Perosino continua il gioco di Buzzati: “Il Mantello” infatti nacque come racconto e diventò poi, arricchendosi, un atto unico e ancora, dopo, un libretto d’opera. In questo gioco di riciclo di una struttura, di una idea, che potrebbe durare all’infinito, Perosino si inserisce prepotentemente - e sembra rifarsi anche alle tecniche letterarie (artistico-filosofiche) di Borges – dando idea di poter continuare a lungo sul tema. Non si può che fare i complimenti a un lavoro così pensato: un concept album ispirato a un racconto, che si allarga e si allunga e si trasforma e permette all’artista di raccontare per quadri, per fotografie, per scenografie teatrali, per flashback cinematografici e infine per canzoni, le proprie paure, i propri ricordi di giovane uomo mimetizzati in costumi d’epoca, la propria ricerca intellettuale, la propria missione di artista. Si sente ovviamente tutta l’impronta dell’esperienza teatrale di Perosino e l’amore per un certo modo di fare musica che col Teatro si incontra, a volte si fonde, comunque si ama. Si sente anche l’esperienza musicale col collettivo Noàis. E si sentono tutte vive e forti le grandi doti di scrittura, che non a caso gli hanno fatto vincere il Premio Botteghe d’Autore per il miglior Testo 2019. E gli arrangiamenti? Forse qui Perosino ha un poco esagerato. Si è divertito a riproporre atmosfere balcaniche, tanghi, swing e molto altro ancora… chiaro che il gioco nasce in funzione di un immaginato spettacolo di Teatro Canzone e chiaro anche che tutto questo mulinello di sound serve a creare il clima per il mondo fantastico dell’album, che vive tra gli inizi Novecento - visti però in un antico cinematografo - e un Duemila evanescente, assente e già morente. Però questo è un disco e il rischio è che a sfuggire sia proprio l’anima musicale del suo autore. Ma più che una critica, questo è un invito a chiarire nei prossimi lavori la strada personale. Intanto ci gustiamo la ricchezza di suggestioni musicali come un divertissement o come quando si annusa un potpourri dai mille fiori. Un altro appunto che vorremmo fare è sulla mancanza di un libretto che – oltre ai testi – contenga anche un po’ di storia di questa bella vicenda artistica: il disco lo avrebbe meritato. Bello comunque ed elegante il progetto grafico, il packaging e la qualità della carta. Ma soprattutto bello sapere che nella nostra provincia, in questo paese reale così difficile e complesso, esistano esempi così limpidi di incontro tra cultura e ispirazione artistica, tra tradizione e sperimentazione, tra idee e puro talento. 


Elisabetta Malantrucco

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