Il bolognese Carlo Maver è artista che non ama stare fermo: flautista diplomato in Conservatorio e bandoneonista (allievo di Daniele Di Bonaventura e dell’argentino Dino Saluzzi, quest’ultimo sicuramente il suo nume tutelare), strumentista solitario ma pure aduso a collaborazioni in ambienti musicali eterogenei (Hengel Gualdi, Javier Girotto, Cheryl Porter, Simone Zanchini, Riccardo Tesi e altri ancora), agli organici in quartetto (con cui ha inciso “Spaesaggi” e “12 Nodi”) o anche più ampi (come nel suo album precedente, “Tracce d’Africa”), direttore artistico di un festival ecologico-musicale sull’Appennino bolognese e modenese, viaggiatore solitario; ha inciso dischi (questo di cui qui si parla è il quarto a suo nome) e ha pubblicato un libro reportage di viaggio (“Azalai: 1500 chilometri a piedi nel deserto”); le sue musiche sono sovente utilizzate a commento di immagini televisive.
Suonato con solo bandoneon cui, di tanto in tanto, si alternano i flauti (traverso, basso e moxeno), “Volver” è stato registrato in presa diretta in una chiesa di S. Maria Assunta di Casola, nel bolognese, una scelta che accentua la tensione narrativa di una performance in cui l’artista deve fare i conti con la propria individualità, portandolo, necessariamente, a prodursi in una ricerca su se stesso e a mettersi in relazione dei suoi strumenti con l’acustica del luogo d’esecuzione. D’altra parte, non è uno scenario inconsueto per il compositore, che spesso per i suoi concerti ha scelto siti storici.
Così Maver descrive “Volver”: «Questo lavoro in solo è stato un’esperienza profonda. Sperimentare i propri limiti, le proprie paure, il suono e il riverbero. Ho trovato unico poter suonare con me, ascoltarmi». Il musicista firma quattordici brani sui sedici in scaletta, iniziando con emblematici rintocchi di campana, che spianano la via a un lavoro che procede senza soluzione di continuità. Si configura una sorta di libero percorso interiore e visionario che, operando per sottrazione, richiama svariate geografie sonore e suggestioni di “terre vaste”: si muove tra sospiri malinconici e tratti onirici, meditazioni e pause, screziature latine e passaggi lirici, intarsi arditi e marcata fisicità del diteggiare accanto ad accarezzamenti gentili, seguendo con efficacia i risvolti dell’emotività.
Nel programma di titoli evocativi, spicca l’interpretazione di “Soledad” di Carlos Gardel, svuotata della sua anima danzante; brillano pure l’ancestrale “Llamada”, la rotta di ispirazione mediterranea di “Shardana”, “Solo Lunatica”, scritta a quattro mani con la cantante e chitarrista argentina Enza Alessandra Prestia, la tenacia di “Fino alla fine” e la conclusiva “L’ultimo dei Morlacchi”. Esperienza sonora da percorrere fino in fondo.
Ciro De Rosa
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