Riflessioni (e qualche divagazione) attorno ad una recente pubblicazione dedicata alle musiche tradizionali della Svizzera
Questa pagina desidera proporre qualcosa di diverso da una semplice recensione. Il motivo è che il libro di cui mi occupo offre l'occasione per ricordare ai lettori quanto sia interessante inquadrare le tradizioni musicali dell'area alpina italiana nel contesto più ampio delle aree alpine appartenenti alle nazioni limitrofe. La ricchezza musicale delle Alpi italiane è peraltro ben conosciuta e studiata. Questo libro di Brigitte Bachmann-Geiser ci aiuta ad apprezzarla ulteriormente perché ci offre termini di confronto. È facile così notare somiglianze e differenze, cosa i due versanti abbiano in comune e cosa in comune, invece, non hanno. Nell'ambito degli studi alpini la Svizzera, tra le nazioni confinanti, offre un panorama intrigante: tanto simile e, al tempo stesso, così diverso da quello del versante meriodionale delle Alpi. Simile perché parte dei territori elvetici hanno in comune con quelli italiani ben quattro lingue: italiano, tedesco, franco-provenzale e reto-romancio (quest'ultimo in Italia prende due nomi: Friulano e Ladino della Val di Fassa). Ciò che rende particolarmente interessante la Svizzera, da questo punto di vista, è che nel suo piccolo territorio la musica tradizionale si collega non solo a lingue diverse, più coltivate che non in Italia, ma anche – a differenza dell'Italia – a diverse confessioni religiose che godono di ampio spazio perché la nazione non ha una religione ufficiale. Il versante italiano, per contro, possedeva, soprattutto prima dell'unificazione nazionale, una varietà linguistica più marcata di quella odierna (si pensi alle isole alloglotte slovene in Friuli-Venezia Giulia e a quelle germaniche, in cui si parlava cimbro: in provincia di Vicenza e Verona e poi a Luserna e Valle dei Mocheni nel Trentino). Sorprendentemente però, al di là e al di sopra di queste differenze il repertorio musicale alpino, osservato nel suo complesso, manifesta alcuni caratteri comuni ritrovabili in ogni sua parte. Una sola grossa differenza appare anche all'osservatore superficiale: il fatto che nel versante svizzero la musica strumentale ha una forte presenza che non si ritrova in Italia. Questo è evidenzato assai bene nel libro della Bachmann-Geiser, che dedica molta attenzione agli strumenti, ai gruppi strumentali, alla loro storia e alla loro diffusione. È arrivato il momento di dire che Brigitte Bachmann-Geiser è una studiosa internazionalmente nota, particolarmente attenta anche all'etnomusicologia italiana. Per numerosi anni, a partire dalla sua fondazione (nel 2002), fece parte del consiglio direttivo del Fondo Roberto Leydi, ospitato dal Centro di Dialettologia e di Etnografia del Canton Ticino a Bellinzona, e dalla Fonoteca Nazionale Svizzera di Lugano. Questa sua particolare "Storia della musica tradizionale svizzera" è il primo contributo prodotto da un etnomusicologo svizzero che prenda in considerazione tutte le aree linguistiche della nazione elvetica. Non vuole essere una storia complessiva di questo insieme di tradizioni antiche, in certa misura eterogenee, il che sarebbe stato forse impossibile. L'eterogeneità musicale delle tre maggiori aree linguistiche è data non solo dai caratteri musicali specifici dei loro repertori (non sorprende che le tradizioni del Ticino siano simili a quelle della Lombardia e quella della Svizzera Romanda siano imparentate con quelle delle aree limitrofe della Francia); ma anche dell'uso identitario che se ne è fatto. Quello che la Bachmann-Geiser invece desidera e riesce a fare, è di mettere in luce la storia dei singoli generi e pratiche musicali. Ciò vuol dire che il libro può essere letto selettivamente a seconda dei filoni che maggiormente interessano. Torniamo alla questione identitaria dei repertori; una questione che riguarda primariamente la svizzera tedesca. Questa è l'area linguistica territorialmente e demograficamente maggioritaria; dunque occupa ampio spazio nel libro. Anche se l'anima latina dell'Italia genera un senso di lontananza nei confronti delle tradizioni germaniche, un confronto è pur sempre utile, a diversi livelli. Per esempio, in Italia il Folk Music Revival si attivò dopo la Seconda Guerra Mondiale e, come in altri paesi europei, fu animato da un forte desiderio da parte della sinistra politica di rivalutare la cultura delle "classi subalterne". Nella Svizzera tedesca, invece il revival iniziò prima ancora della guerra, dato che la Svizzera si trovava a ridosso della Germania nazista, la quale spesso esprimeva il progetto secondo cui la Svizzera tedesca dovesse prima o poi diventare parte del Terzo Reich. Fu così che a quel tempo musica e dialetti alemanni (in Germania, a parte la regione della Foresta Nera, si parlano dialetti di diversa radice linguistica) cominciarono ad essere cospicuamente sbandierati dagli svizzeri. L'idea era di rendere il più evidente possibile quanto gli svizzeri tedeschi si sentissero profondamente differenti e culturalmente lontani dagli austro-tedeschi e dal nazismo. Così i dialetti alemmani, precedentemente in declino, e la musica cantata in quei dialetti furomo rivalutati per motivi ideologico-politici, come simbolo forte dell'identità nazionale elvetica. Questa bandiera musicale che fu la "schweizerische Volksmusik" (traduco il termine con "musica tradizionale" perché l'taliano "popolare" non rende bene le connotazioni del termine "Volk") ebbe presa efficace, al punto che l'impatto di allora continua a sentirsi ancora oggi. Gli stranieri si sorprendono quando si accorgono che nella Svizzera tedesca, il "tedesco" (Hochdeutsch) non fa parte del parlar quotidiano, ma compare solo in situazioni formali e come lingua scritta. Ne risulta una situazione di diglossia (lingue diverse usate in situazioni comunicative differenti) che vede il prevalere dei dialetti alemanni a cui ci si riferisce col termine generico di Schweizerdeutsch. La Schweizerische Volksmusik è ancor oggi altrettanto viva e vegeta dei dialetti, e costituisce addirittura una tradizione in costante evoluzione, coltivata perfino all'interno di accademie, conservatori e scuole di musica. Qualcosa di simile avviene in Irlanda con la musica celtica. Ma il libro a cui mi riferisco non tratta solamente dell'area germanica; esso offre pure praticamente tutto quanto si conosce sul passato musicale anche dei territori elvetici di lingua francese (e franco-provenzale), italiana, e reto-romancia. L'autrice ripercorre per quanto possible i secoli, fino al punto in cui la Svizzera ancora non esisteva come nazione (il suo leggendario inizio si fa risalire al 1291, quando un nucleo di tre cantoni, Uri, Unterwalden e Schwyz firmò un patto di alleanza per difendersi dalle monarchie europee). Naturalmente già poco tempo fa, storicamente parlando, la registrazione fonografica non esisteva. Lo storico allora ricorre a documenti, che contengono informazioni sulla pratica musicale e spesso, anche, notazione musicale. Le tradizioni elvetiche, infatti, sono in buona misura semi-orali, con costanti scambi tra ambito orale e ambito letterato, attraverso quei processi che io chiamo di "oralizzazione" o, al contrario, "letterarizzazione". Al di là di queste fonti, non rimane che affidarsi all'organologia. Il primo capitolo del libro è dunque dedicato ai reperti archeologici, agli strumenti antichi, all'icoconografia del far musica, documenti scritti e documenti con notazione musicale. Il secondo, terzo e quarto capitolo trattano delle tradizioni vocali tra cui, naturalmente, diversi tipi di Jodel, richiami per animali e una forma di parlar-cantando apotropaica, dunque uno Sprechgesang che mira ad allontanare e scongiurare gli influsssi malefici. Quest’ultimo è chiamato Alpsegen dai folkloristi germanici mentre i pastori svizzeri che lo praticano alla fine di una giornata di lavoro lo chiamano Bättruef. Riti di carattere apotropaico legati al mondo agricolo sono peraltro diffusi in tutta Europa. Curiosamente, però, la forma svizzera dell'Alpsegen, pur trattandosi di una tradizione legata al cattolicesino, non mi risulta sia presente sul versante italiano. È particolarmente interessante in Svizzera la presenza dello Jodel (di cui esistono numerose forme e generi performativi), dei richiami per animali (detti Kühreihen in area germanofona e Ranz des Vaches in quella francofona) e degli Alpsegen che, pur se considerati solitamente come qualcosa di prettamente svizzero, in effetti non lo sono del tutto. Lo Jodel, per esempio, lo si incontra anche negli USA (cowboy singinging, e in quel cantare a quattro voci chiamato Barber Shop Harmony), lo si incontra anche nell'isola di Flores (Indonesia), in Lapponia, Georgia, Mongolia e tra i pigmei dell'Africa centrale. Sulla base di queste risultanze etnografiche i folkloristi tedeschi di primo novecento, quelli collegati alla scuola che portava il nome di Kulturkreislehre, ritenevano che tali pratiche vocali rappresentassero lo strato più arcaico del folklore europeo se non, addirittura, mondiale. Lo pensavano come uno strato arcaico a cui oramai strati più recenti si sono sovrapposti, cancellandolo quasi ovunque, salvo che in alcune, poche, zone in cui gli strati di cultura più recente non li hanno occultati. L’ipotesi e, più generalmente, le teorie della Kulturkreislehre, sono oggi dimenticate, senza che però nessuno abbia potuto veramente provare che siano errate. In ogni caso, questo presunto strato arcaico è in Italia assai poco visibile. Quello che nell’area alpina italiana è invece fortemente presente, e la accomuna al resto dei territori alpini, è il canto corale di gruppo in cui due voci si sovrappongono a distanza di terza (meno frequentemente di sesta) mentre una terza voce, di registro grave, produce note lente e consonanti con le parti superiori. Nei capitoli successivo Brigitte Bachmann-Geiser tratta delle raccolte di canti tradizionali svizzeri prodotte a partire dall’Ottocento e delle caratteristiche del repertorio che esse rivelano. Poi quella che forse è la parte più sostanziale del volume è dedicata agli strumenti musicali. Il lettore italiano sarà probabilmente sopreso di constatare quanti ve ne siano. Si va dai campanacci che si appendono al collo dei bovini, alle campane delle chiese e alle batterie di campane, all’Alphorn e ad altri strumenti a fiato pastorali. Poi tratta anche degli organetti casalinghi, delle varie forme di salterio, scacciapensieri, armonica a bocca, fisarmonica diatonica (Schwitzerörgeli) e altri ancora. Molte informazioni vengono date anche sui piccoli gruppi strumentali, compresi quelli costituiti da strumenti a fiato di derivazione bandistica, tra cui la “bandella” ticinese di cui, anche se con altra denominazione, esistono numerose forme in territorio italiano. In conclusione desiero segnalare un interessante capitolo che parte dal revival, quello stesso che fu presente in tutte le nazione dell’Occidente, Italia compresa, per poi trattare sia dei processi innovativi che della contemporaneità. C’è solo da aggiungere che al volume sono allegati due CD: il primo porta esempi collegati all’ordine degli argomenti trattati, mentre il secondo raccoglie documenti audio relativi alle celebrazioni calendariali a cui pratiche vocali e strumentali si accompagnano. Tutto ciò ho desiderato spiegarlo, perché consapevole del fatto che un libro in lingua tedesca troverà pochi lettori in Italia, anche tra folkloristi, etnomusicologi e musicisti attivi nel campo della musica popolare. La natura latina della cultura italiana crea una sorta di barriera nei confronti del tedesco e delle lingue germaniche. Osservando l’Italia dall’esterno sembra peccato che il tedesco venga percepito come lingua “straniera”, mentre in effetti è una lingua parlata ufficialmente all’interno dei confini nazionali; dunque una lingua “nazionale” anche se di minoranza. Pensando a questo la barriera psicologica che rende difficile avvicinarla dovrebbe cadere. Naturalmente in una nazione come l’Italia, nata anche sulla base di un apprezzamento generalizzato per la lingua Toscana, questa prospettiva è forse difficile da proporre. Questa comunque è tutta un’altra storia a cui accenno solamente e di sfuggita, perché davvero esula dal compito di una recensione, se pur atipica come questa.
Questa pagina desidera proporre qualcosa di diverso da una semplice recensione. Il motivo è che il libro di cui mi occupo offre l'occasione per ricordare ai lettori quanto sia interessante inquadrare le tradizioni musicali dell'area alpina italiana nel contesto più ampio delle aree alpine appartenenti alle nazioni limitrofe. La ricchezza musicale delle Alpi italiane è peraltro ben conosciuta e studiata. Questo libro di Brigitte Bachmann-Geiser ci aiuta ad apprezzarla ulteriormente perché ci offre termini di confronto. È facile così notare somiglianze e differenze, cosa i due versanti abbiano in comune e cosa in comune, invece, non hanno. Nell'ambito degli studi alpini la Svizzera, tra le nazioni confinanti, offre un panorama intrigante: tanto simile e, al tempo stesso, così diverso da quello del versante meriodionale delle Alpi. Simile perché parte dei territori elvetici hanno in comune con quelli italiani ben quattro lingue: italiano, tedesco, franco-provenzale e reto-romancio (quest'ultimo in Italia prende due nomi: Friulano e Ladino della Val di Fassa). Ciò che rende particolarmente interessante la Svizzera, da questo punto di vista, è che nel suo piccolo territorio la musica tradizionale si collega non solo a lingue diverse, più coltivate che non in Italia, ma anche – a differenza dell'Italia – a diverse confessioni religiose che godono di ampio spazio perché la nazione non ha una religione ufficiale. Il versante italiano, per contro, possedeva, soprattutto prima dell'unificazione nazionale, una varietà linguistica più marcata di quella odierna (si pensi alle isole alloglotte slovene in Friuli-Venezia Giulia e a quelle germaniche, in cui si parlava cimbro: in provincia di Vicenza e Verona e poi a Luserna e Valle dei Mocheni nel Trentino). Sorprendentemente però, al di là e al di sopra di queste differenze il repertorio musicale alpino, osservato nel suo complesso, manifesta alcuni caratteri comuni ritrovabili in ogni sua parte. Una sola grossa differenza appare anche all'osservatore superficiale: il fatto che nel versante svizzero la musica strumentale ha una forte presenza che non si ritrova in Italia. Questo è evidenzato assai bene nel libro della Bachmann-Geiser, che dedica molta attenzione agli strumenti, ai gruppi strumentali, alla loro storia e alla loro diffusione. È arrivato il momento di dire che Brigitte Bachmann-Geiser è una studiosa internazionalmente nota, particolarmente attenta anche all'etnomusicologia italiana. Per numerosi anni, a partire dalla sua fondazione (nel 2002), fece parte del consiglio direttivo del Fondo Roberto Leydi, ospitato dal Centro di Dialettologia e di Etnografia del Canton Ticino a Bellinzona, e dalla Fonoteca Nazionale Svizzera di Lugano. Questa sua particolare "Storia della musica tradizionale svizzera" è il primo contributo prodotto da un etnomusicologo svizzero che prenda in considerazione tutte le aree linguistiche della nazione elvetica. Non vuole essere una storia complessiva di questo insieme di tradizioni antiche, in certa misura eterogenee, il che sarebbe stato forse impossibile. L'eterogeneità musicale delle tre maggiori aree linguistiche è data non solo dai caratteri musicali specifici dei loro repertori (non sorprende che le tradizioni del Ticino siano simili a quelle della Lombardia e quella della Svizzera Romanda siano imparentate con quelle delle aree limitrofe della Francia); ma anche dell'uso identitario che se ne è fatto. Quello che la Bachmann-Geiser invece desidera e riesce a fare, è di mettere in luce la storia dei singoli generi e pratiche musicali. Ciò vuol dire che il libro può essere letto selettivamente a seconda dei filoni che maggiormente interessano. Torniamo alla questione identitaria dei repertori; una questione che riguarda primariamente la svizzera tedesca. Questa è l'area linguistica territorialmente e demograficamente maggioritaria; dunque occupa ampio spazio nel libro. Anche se l'anima latina dell'Italia genera un senso di lontananza nei confronti delle tradizioni germaniche, un confronto è pur sempre utile, a diversi livelli. Per esempio, in Italia il Folk Music Revival si attivò dopo la Seconda Guerra Mondiale e, come in altri paesi europei, fu animato da un forte desiderio da parte della sinistra politica di rivalutare la cultura delle "classi subalterne". Nella Svizzera tedesca, invece il revival iniziò prima ancora della guerra, dato che la Svizzera si trovava a ridosso della Germania nazista, la quale spesso esprimeva il progetto secondo cui la Svizzera tedesca dovesse prima o poi diventare parte del Terzo Reich. Fu così che a quel tempo musica e dialetti alemanni (in Germania, a parte la regione della Foresta Nera, si parlano dialetti di diversa radice linguistica) cominciarono ad essere cospicuamente sbandierati dagli svizzeri. L'idea era di rendere il più evidente possibile quanto gli svizzeri tedeschi si sentissero profondamente differenti e culturalmente lontani dagli austro-tedeschi e dal nazismo. Così i dialetti alemmani, precedentemente in declino, e la musica cantata in quei dialetti furomo rivalutati per motivi ideologico-politici, come simbolo forte dell'identità nazionale elvetica. Questa bandiera musicale che fu la "schweizerische Volksmusik" (traduco il termine con "musica tradizionale" perché l'taliano "popolare" non rende bene le connotazioni del termine "Volk") ebbe presa efficace, al punto che l'impatto di allora continua a sentirsi ancora oggi. Gli stranieri si sorprendono quando si accorgono che nella Svizzera tedesca, il "tedesco" (Hochdeutsch) non fa parte del parlar quotidiano, ma compare solo in situazioni formali e come lingua scritta. Ne risulta una situazione di diglossia (lingue diverse usate in situazioni comunicative differenti) che vede il prevalere dei dialetti alemanni a cui ci si riferisce col termine generico di Schweizerdeutsch. La Schweizerische Volksmusik è ancor oggi altrettanto viva e vegeta dei dialetti, e costituisce addirittura una tradizione in costante evoluzione, coltivata perfino all'interno di accademie, conservatori e scuole di musica. Qualcosa di simile avviene in Irlanda con la musica celtica. Ma il libro a cui mi riferisco non tratta solamente dell'area germanica; esso offre pure praticamente tutto quanto si conosce sul passato musicale anche dei territori elvetici di lingua francese (e franco-provenzale), italiana, e reto-romancia. L'autrice ripercorre per quanto possible i secoli, fino al punto in cui la Svizzera ancora non esisteva come nazione (il suo leggendario inizio si fa risalire al 1291, quando un nucleo di tre cantoni, Uri, Unterwalden e Schwyz firmò un patto di alleanza per difendersi dalle monarchie europee). Naturalmente già poco tempo fa, storicamente parlando, la registrazione fonografica non esisteva. Lo storico allora ricorre a documenti, che contengono informazioni sulla pratica musicale e spesso, anche, notazione musicale. Le tradizioni elvetiche, infatti, sono in buona misura semi-orali, con costanti scambi tra ambito orale e ambito letterato, attraverso quei processi che io chiamo di "oralizzazione" o, al contrario, "letterarizzazione". Al di là di queste fonti, non rimane che affidarsi all'organologia. Il primo capitolo del libro è dunque dedicato ai reperti archeologici, agli strumenti antichi, all'icoconografia del far musica, documenti scritti e documenti con notazione musicale. Il secondo, terzo e quarto capitolo trattano delle tradizioni vocali tra cui, naturalmente, diversi tipi di Jodel, richiami per animali e una forma di parlar-cantando apotropaica, dunque uno Sprechgesang che mira ad allontanare e scongiurare gli influsssi malefici. Quest’ultimo è chiamato Alpsegen dai folkloristi germanici mentre i pastori svizzeri che lo praticano alla fine di una giornata di lavoro lo chiamano Bättruef. Riti di carattere apotropaico legati al mondo agricolo sono peraltro diffusi in tutta Europa. Curiosamente, però, la forma svizzera dell'Alpsegen, pur trattandosi di una tradizione legata al cattolicesino, non mi risulta sia presente sul versante italiano. È particolarmente interessante in Svizzera la presenza dello Jodel (di cui esistono numerose forme e generi performativi), dei richiami per animali (detti Kühreihen in area germanofona e Ranz des Vaches in quella francofona) e degli Alpsegen che, pur se considerati solitamente come qualcosa di prettamente svizzero, in effetti non lo sono del tutto. Lo Jodel, per esempio, lo si incontra anche negli USA (cowboy singinging, e in quel cantare a quattro voci chiamato Barber Shop Harmony), lo si incontra anche nell'isola di Flores (Indonesia), in Lapponia, Georgia, Mongolia e tra i pigmei dell'Africa centrale. Sulla base di queste risultanze etnografiche i folkloristi tedeschi di primo novecento, quelli collegati alla scuola che portava il nome di Kulturkreislehre, ritenevano che tali pratiche vocali rappresentassero lo strato più arcaico del folklore europeo se non, addirittura, mondiale. Lo pensavano come uno strato arcaico a cui oramai strati più recenti si sono sovrapposti, cancellandolo quasi ovunque, salvo che in alcune, poche, zone in cui gli strati di cultura più recente non li hanno occultati. L’ipotesi e, più generalmente, le teorie della Kulturkreislehre, sono oggi dimenticate, senza che però nessuno abbia potuto veramente provare che siano errate. In ogni caso, questo presunto strato arcaico è in Italia assai poco visibile. Quello che nell’area alpina italiana è invece fortemente presente, e la accomuna al resto dei territori alpini, è il canto corale di gruppo in cui due voci si sovrappongono a distanza di terza (meno frequentemente di sesta) mentre una terza voce, di registro grave, produce note lente e consonanti con le parti superiori. Nei capitoli successivo Brigitte Bachmann-Geiser tratta delle raccolte di canti tradizionali svizzeri prodotte a partire dall’Ottocento e delle caratteristiche del repertorio che esse rivelano. Poi quella che forse è la parte più sostanziale del volume è dedicata agli strumenti musicali. Il lettore italiano sarà probabilmente sopreso di constatare quanti ve ne siano. Si va dai campanacci che si appendono al collo dei bovini, alle campane delle chiese e alle batterie di campane, all’Alphorn e ad altri strumenti a fiato pastorali. Poi tratta anche degli organetti casalinghi, delle varie forme di salterio, scacciapensieri, armonica a bocca, fisarmonica diatonica (Schwitzerörgeli) e altri ancora. Molte informazioni vengono date anche sui piccoli gruppi strumentali, compresi quelli costituiti da strumenti a fiato di derivazione bandistica, tra cui la “bandella” ticinese di cui, anche se con altra denominazione, esistono numerose forme in territorio italiano. In conclusione desiero segnalare un interessante capitolo che parte dal revival, quello stesso che fu presente in tutte le nazione dell’Occidente, Italia compresa, per poi trattare sia dei processi innovativi che della contemporaneità. C’è solo da aggiungere che al volume sono allegati due CD: il primo porta esempi collegati all’ordine degli argomenti trattati, mentre il secondo raccoglie documenti audio relativi alle celebrazioni calendariali a cui pratiche vocali e strumentali si accompagnano. Tutto ciò ho desiderato spiegarlo, perché consapevole del fatto che un libro in lingua tedesca troverà pochi lettori in Italia, anche tra folkloristi, etnomusicologi e musicisti attivi nel campo della musica popolare. La natura latina della cultura italiana crea una sorta di barriera nei confronti del tedesco e delle lingue germaniche. Osservando l’Italia dall’esterno sembra peccato che il tedesco venga percepito come lingua “straniera”, mentre in effetti è una lingua parlata ufficialmente all’interno dei confini nazionali; dunque una lingua “nazionale” anche se di minoranza. Pensando a questo la barriera psicologica che rende difficile avvicinarla dovrebbe cadere. Naturalmente in una nazione come l’Italia, nata anche sulla base di un apprezzamento generalizzato per la lingua Toscana, questa prospettiva è forse difficile da proporre. Questa comunque è tutta un’altra storia a cui accenno solamente e di sfuggita, perché davvero esula dal compito di una recensione, se pur atipica come questa.
Marcello Sorce Keller
Istituto di Musicologia, Università di Berna