Il dato di partenza di questo splendido album, suonato da musicisti finlandesi e perfettamente incastrato nella poetica nordica della narrazione, nella forza della parola e nel suo valore rituale, è il cosiddetto “joik”. Vale a dire il racconto, il canto popolare, pensato, assorbito e presentato a noi nella sua forma più profonda, attraverso orme antiche, suoni vecchi e nuovi, “spirito” di ricerca e voglia di far conoscere. La voce di Ulla Pirttijärvi - una cui foto in primo piano spicca nella prima pagina del libretto e introduce l’ascoltatore alla lettura di alcune note sulle tradizioni espressive antiche e moderne della cultura sami - sembra aver introiettato nel modo più completo l’intero scenario entro cui questi canti popolari sono stati generati. Dico scenario perché non si può ascoltare quella voce (e con lei quel canto che racconta e descrive) senza immaginare le lande entro cui si muovevano (e si muovono ancora oggi) i lapponi: un orizzonte infinito e allo stesso tempo stretto e stringente, un clima avverso, un vento implacabile, una storia e una tradizione di spostamenti, una cultura di saperi millenaria che travalica i confini dei paesi della Scandinavia. Ci dice la Pirttijärvi che questi canti sono parte integrante della sua identità famigliare, per dimostrarci non solo la loro sedimentazione ma anche la loro funzione contemporanea, la loro efficacia descrittiva. Difatti, l’album “Áššu” raccoglie esempi di “joiks” provenienti da Angeli e Utsjoki, rispettivamente il villaggio natale di Ulla e quello in cui attualmente vive. Ma presenta anche esempi più “generali”, allo scopo di documentare una prospettiva più ampia e, possibilmente, soddisfacente. Per quanto riguarda il piano musicale, ci troviamo difronte a una serie di elementi molto interessanti. Innanzitutto perché ogni brano irradia una musicalità molto forte, pregna (come accennato) dell’orizzonte lappone: la voce, piena, ferma, spesso inceppata, apparentemente sincopata, non può non ricordare il vento che soffia. Questa immagine aderisce bene alla struttura metrica dei canti, così come alla evidente necessità di ricondurne lo svolgimento a una reiterazione delle strutture melodiche. Lo si può dire forti di quelle sensazioni che solo un ascolto attento dell’album può dare, senza temere di stravolgere un’interpretazione etnomusicologica più analitica. D’altronde la variabilità della struttura, più che alla musica, è demandata al testo, cioè all’insieme delle parti del racconto, che ammette la compresenza di modelli tradizionali, (ovviamente tramandati oralmente e) ripetuti nello svolgimento del canto, e innesti di nuove parti. Insomma, come capita in altri contesti canori tradizionali più vicini a noi, la trama elastica della forma espressiva sembra essere funzionale sì al racconto della tradizione, ma anche a quello della contemporaneità. Ciò detto, uno sguardo più ravvicinato al testo musicale - che a ben vedere è molto vario e ben organizzato, nonostante gli strumenti utilizzati non siano molti - ci porta a riconoscere una variazione fondamentale, che rende l’album non solo piacevole da ascoltare, ma anche interessante da approfondire. La scelta degli strumenti è evidentemente legata al carattere del canto: gli autori non hanno nessuna intenzione di stravolgere forme e tradizioni, ma nonostante questo muoiono dalla voglia di arricchirle, di renderle più descrittive ed efficaci. Addirittura riescono a connettere l’epica di quei canti a una narrazione più globale, in una prospettiva nella quale, quasi inevitabilmente (sembrano volerci dire soprattutto gli strumentisti Harald Skullerud e Olav Torget), entra la terra primigenia: l’Africa, con il suono secco delle sue corde e l’eco irriducibile della sua narrazione. A questo servono strumenti come calimba, calabas e, soprattutto, oil-can guitar e konting, che affiancano sublimemente chitarra baritono e armonium.
Daniele Cestellini
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