Rakesh Chaurasia e Satyajit Talwalkar |
L’Istituto Interculturale di Studi Musicali Comparati, ospitato dalla Fondazione Giorgio Cini (Venezia), ha celebrato il suo cinquantesimo compleanno (che ricorrerà il 23 giugno) con un convegno di due giorni, organizzato in collaborazione con lo Humboldt Forum di Berlino. Gli interventi hanno ripercorso un ampio lavoro di ricerca, documentazione e diffusione discografica, educativa e performativa delle musiche del mondo, in particolare fra Parigi, Berlino, Venezia e Washington. Le due giornate hanno contribuito a ricostruire il percorso che ha portato alla fondazione dell’Istituto Internazionale per gli Studi e la Documentazione Comparativa delle Musiche (IICMSD, in precedenza IITM, oggi Humboldt Forum e Museo Statale Etnologico) a Berlino nel 1963 e, quindi, nel 1969, a Venezia, all’Istituto Internazionale Musiche Comparate, (IISMC) entrambi diretti da Alain Daniélou. Il 30 maggio il convegno è stato aperto da Pasquale Gagliardi, Segretario Generale della Fondazione Giorgio Cini che ha poi lasciato il ruolo di moderatore a Francesco Giannattasio. Il compito di inquadrare i cinquant’anni di lavoro dell’ IISMC è stato affidato a Giovanni Giuriati, che ha poi lasciato la parola a due colleghi: Lars-Christian Koch per approfondimenti sul Meta-Music Festival a Berlino negli anni Settanta, e Stephen Blum sulle modalità di “scoperta” delle musiche del mondo “a casa”. Nel pomeriggio, Henry Spiller ha tracciato i rapporti fra musiche del mondo e processi compositivi con una relazione dal titolo
Giovanni Giuriati |
“Paradise Lost: Lou Harrison’s Encounters with Asian Discourses on Intonation”. Harm Langenkamp ha quindi cercato di svelare le “politiche nascoste” che hanno riguardato la comparazione musicale nel contesto della guerra fredda che ha attraversato l’UNESCO fra gli anni Cinquanta e Ottanta. La giornata si è chiusa con un’intervista a cura di Lars-Christian Koch a Jacques Cloarec, stretto collaboratore di Daniélou per le produzioni discografiche. Il 31 maggio, Lars-Christian Koch ha introdotto l’antropologo Jean-Loup Amselle che ha presentato una relazione dal titolo “Le chassé-croisé artistique: primitivisme occidental, modernité exotique”. Amselle ha evidenziato il rischio di essenzialismo e di primitivismo nella ricerca e nella produzione discografica a carattere etnomusicologico e di ambito world music. Ha messo l’accento sul fatto che la definizione da parte dell’UNESCO di un “patrimonio intangibile” extra europeo possa essere anche avere come esito lo stabilire un’alterità funzionale a definire l’identità occidentale. Inoltre, il catalogo world music, per Amselle, corre il rischio di indurre i musicisti ad assecondare le aspettative primitiviste e allo stesso tempo i gusti musicali e le intonazioni occidentali. In generale, Amselle vede da parte etnomusicologica un contributo ad un’estetica che ricerca un suono “puro” che ha caratterizzato anche un certo tipo di diffusione radiofonica. In tal senso, le politiche UNESCO in questo ambito hanno accentuato una tendenza all’essenzialismo.
Simha Arom |
Giuriati è intervenuto su questo aspetto fornendo quale esempio il “rifiuto” ad includere nel patrimonio intangibile la Festa dei gigli di Nola perché “non sufficientemente tradizionalista”.Simha Arom ha reagito ad Amselle difendendo la Collezione UNESCO e la sua ricerca di “purezza” in quanto fondata dopo la seconda guerra mondiale, nel momento in cui si stabilivano contatti tra popolazioni africane precedentemente “isolate” e il resto del mondo: «Quando Rouget ed io cominciammo a registrare, negli anni Cinquanta e Sessanta, le popolazioni africane come quella pigmea, lo facemmo giusto prima che queste musiche, incontaminate per centinaia di anni, entrassero in contatto con il resto del mondo. Al contrario, la musica urbana non è musica tradizionale». A seguire, Anaïs Flechet, con la comunicazione “Performing Diversity” ha presentato i primi risultati della sua ricerca sugli archivi UNESCO e il lavoro dell’International Music Council (IMC), attivo fin dal 1949. Ha ricordato come, fino al 1957 la musica non occidentale sia stata quasi del tutto assente nel lavoro dell’IMC dell’UNESCO, con due eccezioni: gli Archivi Internazionali delle musiche popolari incise e raccolte da Constantin Brailoiu a Ginevra; e l’Antologia della musica classica indiana curata da Alain Danielou. Proprio Alain Danielou, ebbe un ruolo chiave nell’animare dal 1957 al 1966 l’“East-West Major Project”. Notevoli sono state le diverse collezioni UNESCO Records, tre dirette da Danielou, sull’Oriente (dal 1961), Musical Sources (pubblicata da Phillips, dal 1971)
Ivan Vandor |
e Musical Atlas (pubblicata da EMI Italia e Odeon, dal 1972), e una sull’Africa che ha visto il contributo di Francis Bebey (dal 1972), critico di un approccio centrato sulla “purezza” e a favore di attività che testimonino la vitalità delle musiche contemporanee, così come lo fu il brasiliano Luiz Heitor Correa de Azevedo. Linda Cimardi, ricercatrice al Centro Alexander von Humboldt e al Museo Etnologico Berlino ha raccontato il ruolo dei Festival di musica classica europei nell’aprirsi alle musiche del mondo. Ha quindi ricostruito il lavoro avvenuto dal 1966 al 1977, promosso da Alain Daniélou e Nikolas Nabokov, attraverso l’associazione internazionale di festival GIICSC (Groupe interculturel d’information et coordination pour les spectacles et les concerts, attivo dal 1966 al 1977) con l’organizzazione e la registrazioni di concerti di musiche asiatiche e africane, ma anche di danze, e spettacoli teatrali dal vivo che coinvolsero anche Fenice e Biennale di Venezia. Nabokov e Danielou hanno sostenuto l’importanza dell’organizzare concerti di musiche asiatiche ed africane nei palchi e nei festival destinati alla migliore musica, e non nei musei etnografici per evitare “qualsiasi concessione al folkore” . La documentazione GIICSC venne portata in buona parte in Italia (a Venezia e Zagarolo) con il trasferimento di Danielou da Berlino all’Italia. Giovanni Giuriati ha quindi intervistato Ivan Vandor riguardo al suo lavoro nell’UCLA, ma anche alle sue attività di improvvisatore e compositore a Roma, prima di scegliere di specializzarsi in etnomusicologia.
Rakesh Chaurasia |
Vandor, cresciuto in una famiglia di musicisti, ha ricordato di aver cominciato a suonare il violino a sei anni, per poi studiare piano e composizione dagli otto anni e, in seguito, sax e musica jazz, divenendo un musicista professionista, e un membro attivo dei gruppi come Nuova Consonanza e Musica Elettronica Viva (MEV). Inizialmente è stato l’interesse per le musiche del Tibet a suscitare la motivazione ad esplorare altre musiche e spiritualità come il buddismo. Questo interesse l’ha portato a studiare con Mantle Hood a Los Angeles e a recarsi in Asia per studiare, registrare, trascrivere le musiche praticate nei monasteri tibetani, avvicinando i monaci in esilio in Nepal e nell’India settentrionale. Al ritorno in Europa, prima a Roma e poi a Berlino (con frequenti visite a Venezia), Vandor mantenne un rapporto dialettico e di forte amicizia con Diego Carpitella e divenne il vicepresidente della Società Italiana di Etnomusicologia. L’incontro con Daniélou innescò l’idea di dar vita d una scuola di educazione musicale comparata ospitata presso la Fondazione Cini a Venezia, con il sostegno dell’UNESCO e di Jack Bornoff e Kwame Nketia. Il sostegno dell’UNESCO e della Fondazione Gulbenkian permise di avviare una prima sperimentazione triennale. La scuola vide il ruolo attivo di Patrizia Spiller e Renzo Salvadori e ospitò ricercatori del calibro di Carpitella, con Dionigi Burranca, e Simha Arom. L’idea chiave era quella di privilegiare l’apprendimento della pratica musicale e di non limitarsi a insegnare e discutere teorie.
Negli anni Ottanta Vandor riprese a dedicarsi più intensamente all’attività di compositore e passò il testimone di direttore dell’Istituto Interculturale di Studi Musicali Comparati a Francesco Giannattasio che, a sua volta, lo consegnò a Giuriati. Nel pomeriggio, Atesh Sonneborn ha ricostruito il passaggio nel 2011 degli archivi e del patrimonio sonoro dalla Collezione UNESCO di musica tradizionale a Parigi alla Libreria Smithsonian di Washington e quindi alla Folkways (che aveva cominciato le proprie pubblicazioni nel 1948 ed è stata acquisita dalla Smithsonian nel 1987). Questa acquisizione a prodotto 150 ri-edizioni e 12 nuove edizioni di materiali già registrati (rintracciabili nel sito sova.si.edu). Guido Raschieri ha quindi percorso, attraverso gli scambi epistolari fra etnomusicologi ed editori, i processi produttivi che hanno caratterizzato la realizzazione dei dischi della collezione “Musical Atlas”, mettendo in evidenza tensione etiche ed estetiche. Infine, Serena Facci ha intervistato Simha Arom, il quale ha rievocato in particolare i quattro anni in cui ha vissuto nella Repubblica Centraficana, in particolare documentando (per Ocora e UNESCO) le polifonie pigmee, sottolineando come chi le abbia riprese in ambito pop e jazz-rock non ne abbia capito il ciclo ritmico. Ha anche rammentato gli inviti di Danielou a recarsi in Burkina Faso per l’UNESCO dove, per impedimenti burocratici non fu autorizzato a registrare, finendo quindi per realizzare alcune registrazioni in Benin, in cui ha prestato attenzione alle canzoni e danze utilizzate nell’educazione dei bambini
Satyajit Talwalkar |
e realizzato una registrazione pressoché ininterrotta di 48 ore di una cerimonia funebre di un fabbro. Al termine del convegno, Giovanni Giuriati ha annunciato l’intenzione di trarre dagli interventi una prossima pubblicazione. Alle 18.30, nella Sala degli Arazzi della Fondazione Cini, ha fatto seguito il concerto di flauto bansuri di Rakesh Chaurasia, con Satyajit Talwalkar alle tabla, omaggio a Daniélou che della musica indiana fu il primo promotore in ambito occidentale e cui ha dedicato numerose e accurate produzioni discografiche. Nipote di Pandit Hariprasad Chaurasia, il flautista era già stato ospite della Fondazione nel 2004 ed ha nuovamente incantato gli ascoltatori con un concerto ispirato dalla tradizione classica hindustana. Chaurasia e Talwalkar mostrano un’intesa e un reciproco apprezzamento che permette loro di esplorare una vasta gamma di dinamiche melodiche e soluzioni ritmiche. Due i raga in programma, Yaman, raga della prima notte, ad aprire il concerto con un tempo dispari, adatto a riscaldare per gradi i motori e quindi l’intenso “Bhairavi”, brano classico per la chiusura di un concerto (pur essendo legato al mattino), tempo binario che accende gli scambi fra i due protagonisti, con “Talwalkar” che si dimostra in grado di riprodurre quasi ogni sfumatura melodica (nel modo frigio) del bansuri. Inevitabile un bis “breve” (una decina di minuti) liricamente ispirato alla danza della luna.
Alessio Surian
Tags:
I Luoghi della Musica