Gabriele Mirabassi/Cristina Renzetti/Roberto Taufic – Agreste (S'ard Music/Egea, 2019)

“Agreste” è il viaggio estetico ed emotivo nell’Interior brasileiro del trio Mirabassi, Renzetti, Taufic. Intervista al clarinettista e compositore umbro, da sempre animato da enorme curiosità musicale.

#BF-CHOICE “Agreste”  è  la seconda opera  del trio  Mirabassi (clarinetto), Renzetti  (voce) e  Taufic (chirarra). Dopo  l’esperienza  di “Correnteza”, dedicata  alla  musica  raffinata di  Antonio Carlos Jobim, uno dei padri fondatori del Brasile musicale contemporaneo, i tre, in un certo senso, si lasciano alle spalle l’esotismo tropicalista, rivolgendosi all’interior, l’entroterra del Brasile, un viaggio che li porta a confrontarsi e a mettersi in un certo senso all’ascolto di alcune aree interne della nostra Penisola, dalla Sardegna all’Abruzzo. Sono tre musicisti che non necessitano di presentazioni: Mirabassi è un enorme talento, un artista onnivoro, che si muove con disinvoltura tra musica classica e jazz di confine con incursioni nel mondo tradizionale e world. Vedere il suo trasporto sul palco, con il corpo che asseconda le frasi del suo strumento è uno spettacolo in sé.   Da anni, per di più, persegue una approfondita ricerca sulla musica popolare brasiliana che lo ha portato al meraviglioso sodalizio con Guinga. Cristina Renzetti, cantante ternana, con radici abruzzesi, ha collaborato con la brasiliana Tati Valle nel duo As Madalenas. Roberto Taufic, di residenza italiana, nato in Honduras, di origine palestinese da parte di madre, cresciuto in Brasile, dove si è formato anche musicalmente. Del senso del nuovo lavoro,  della solidità emozionale del trio e dell’amore per il continente sonoro brasiliano parliamo con l’indaffaratissimo clarinettista umbro.

Partiamo dalla magnifica immagine di copertina e dal titolo dei disco: “Agreste”?
L’immagine rappresenta un paesaggio sardo. Proviene dall’archivio di Pierluigi Dessì, un autentico fuoriclasse della fotografia, che è amico del nostro produttore, Michele Palmas. Il titolo deriva dal fatto che tutti i pezzi parlano di terra, di vita contadina, di situazioni rurali, di nostalgia della campagna, di figure tipiche dell’interior brasileiro, visto che l’ottanta per cento dei materiali sono brasiliani. La mia idea originale era proprio di intitolarlo “Interior”, giocando con il doppio significato, perché in portoghese “interior” significa anche entroterra, ma in italiano non esiste questa duplice accezione e quindi non si sarebbe colto il doppio significato. “Agreste” va bene lo stesso, perché il significato è condiviso da entrambe le lingue.

C’è un’idea di base per un repertorio che spazia tra luoghi e tradizioni musicali?
Avevamo fatto un primo disco insieme sulla musica di Jobim, che sta all’opposto di questo mondo: è la musica sofisticata e urbana per antonomasia. Invece, dalla convivenza in noi tre, Cristina, Roberto ed io, dell’interesse a vari livelli verso il Brasile, sappiamo che al di là dello stereotipo della bossa nova, uno dei marchi identitari più forti – anche musicalmente in termini di repertori più profondi, più sentiti, più emozionanti – è  quello della cosiddetta musica caipira, dove caipira sta per contadina, c’è anche una chitarra a 10 corde che si chiama viola caipira. Il mondo caipira è anche un suono. La maggior parte di un territorio enorme come il Brasile è l’interno, se si esclude quella lunga striscia di costa da noi conosciuta: il Brasile vero è quello interiore. Anche la maggior parte del popolo che affolla le coste è scappato dalle siccità le carestie dall’interno. 
Con questo lavoro, poi, noi abbiamo anche voluto mandare un segnale rispetto al fatto che non siamo un trio di musica brasiliana, ma un trio che ha deciso di suonare canzoni di cui è profondamente innamorato. Per ragioni biografiche, purtroppo, la maggioranza delle canzoni che amiamo sono brasiliane… (ride, ndr). Ma non è una scelta né stilistica né filologica, le suoniamo alla nostra maniera. Per questo motivo nel disco ci sono “Monti di Mola” di De André in sardo, “Mare Maje” in dialetto abruzzese e abbiamo voluto mettere uno straordinario pezzo di Milton Nascimento, che parla proprio della terra, si intitola “Cio da Terra”, parla del calore della terra: “cio” è il calore degli animali, l’estro sessuale. Quindi parla della terra in calore, della fertilità della terra: un’immagine fortissima, un pezzo ancestrale, sia nella tematica testuale che nella modalità musicale, ci sembrava meraviglioso proporlo a Elena Ledda, che lo avrebbe spostato, volenti o nolenti, da un’altra parte, mantenendo il cuore dove è:  perché quello descritto da Milton è lo stesso dell’interiore della Sardegna. 

C’è stata una selezione dei materiali brasiliani?
C’è stato un continuo confronto. All’inizio volevano fare qualcosa monografica sul Minas Gerais e su Milton. Poi si è imposta l’idea di non fare qualcosa di monografica, abbiamo approfittato dell’idea di Milton per allargare ilo fuoco, mettiamoci anche il nostro interiore, a mano a mano che si definiva questa idea andavamo proponendo l’uno all’altro suggestioni e pezzi. Quando la reazione degli altri era entusiasmo allora il pezzo veniva inserito. Perché poi scopri che ogni pezzo è associato a fasi biografiche significative. Per me, è molto importante, ad esempio, “Fruta Boa” di Milton Nascimento – uno dei più riusciti del disco – che ha una storia dietro…

E parliamo di “Fruta Boa”… 
Ho suonato per tanti anni in duo con Gianmaria Testa, un duo durato circa venti anni, che si ricavava uno spazietto per qualche tournée ogni anno. Entrambi facevano cose che con gli altri non facevamo. Alla scuola di Gianmaria, ho imparato a seguire i testi delle canzoni, me l’ha insegnato lui. Prima ero uno che era annoiato dalle canzoni, attratto solo dal linguaggio musicale, anzi il testo mi distraeva o non trovavo motivo di ascoltare un testo se non era anche abbastanza interessante musicalmente. A lui devo l’amore che pian piano mi è venuto per questa prodigiosa forma di poesia musicata che si accende nella misura in cui ciascuna delle due componenti fa un piccolo passo indietro, perché sono rarissime le canzoni che possono essere citate autonomamente senza musica come fossero poesie e sono pochissime le canzoni che mantengono la loro grandezza senza che ci sia un grande testo. I due elementi pur se non autonomi, quando sono dosati con maestria, diventano una roba che raddoppia la potenza di ciascuno. Gianmaria – che non sapeva un tubo di musica brasiliana – aveva da sempre una passione sviscerata per “Fruta Boa”, tant’è che glielo avevo tradotto e fornito una versione semplificata per suonarlo alla chitarra. Finalmente, eravamo arrivati intorno a “Fruta Boa” alla definizione di un repertorio per documentare questi venti anni di duo. Con ogni probabilità, il disco si sarebbe chiamato proprio “Fruta Boa” e avevano già date in studio di registrazione riservate, ma non abbiamo più fatto in tempo… Questo “Fruta Boa” mi era rimasto lì. Quindi sono felicissimo di aver trovato il contesto dove realizzare questa cosa, con due dei miei miglior amici, mantenendo quel senso profondo che c’era anche nel rapporto con Gianmaria, era un duo fondato sull’amicizia non sulla professione, proprio come questo trio.

Voce chitarra e clarinetto… un trio perfetto sul piano timbrico?
Un trio perfetto sul piano umano, tutto il resto di conseguenza si mette a posto. Sono tra i miei musicisti preferiti, perché abbiamo uno spettro talmente enorme di background in comune di sensibilità comune che rende tutto molto facile e rende questo trio una magia. Possiamo davvero suonare tirando l’elastico fino a che non si spezza. Suoniamo delle cose molto delicate, con molta parsimonia ma con un rigore da un  lato ossessivo mantenendo la libertà assoluta, Suoniamo in modo sempre diverso sapendo che nessuno andrà fuori tema e sapendo anche che se dovesse succedere, non ci sarà mai un giudizio da parte degli altri o un rimprovero ma anzi un ringraziamento per aver tentato di ampliare la ricerca. È al qualità dello stare insieme. 

Quindi l’emotività di un pezzo è importantissima per suonarlo?
C’è solo quella. Come avevamo fatto con Jobim, non abbiamo mai registrato una nota, un testo che non fosse necessaria per la nostra vita, non so come dirti. Non c‘è un calcolo, Ci sono cose nelle quali siamo affettivamente coinvolti e delle quali siamo innamorati.

Nella scelta del programma è molto presente Dorì Caymmi, di cui riprendete tre brani: “Desenredo”, “Estrela da terra” e “Viver na fazenda”.
Caymmi è un gigante poco conosciuto da noi, Non è che abbiamo cercato nel canzoniere di Dorì ma è che quando pensavamo al mondo agreste i pezzi più importanti che ci venivano in  mente erano i suoi. È una delle nostre grandi passioni comuni.

Un altro brano molto importante è “Romaria” di Renato Teixeira, di cui è arci famosa la versione di Elis Regina. 
Si tratta di un classico, un inno al mondo caipira. È il pellegrinaggio. Un uomo è a cavallo verso il santuario di Pirapora: cerca nella fede il sollievo alla durezza della vita caipira, fatta di sogno e di polvere, di lazo e nodi di giberne e jilò. Come padre un plebeo, per madre la solitudine, i fratelli persi nella vita in cerca di avventure.

Poi c’è “Disparada”, manifesto musicale e politico di opposizione alla dittatura dei primi anni Sessanta del ‘900. Tu che conosci e frequenti il Brasile, che sensazione hai? I tempi sembrano nuovamente molto bui…
I tempi sono drammatici, ma è un periodo globalmente complicato. C’è Trump negli stati Uniti che ancora più preoccupante di Bolsonaro. Ma il disco lo abbiamo concepito prima degli eventi politici brasiliani. Per “Disparada”, che è un pezzo bellissimo, c’è ancora l’utilizzo di questa figura, di questo cavaliere, che è una specie di Don Chisciotte, la rivolta di questo cow boy. Come tanta letteratura dell’epoca per evitare la censura della dittatura si usavano delle metafore. Ci piaceva astrattamente l’idea del canto metaforico per raccontare la corruzione del potere.

Sei il musicista più brasiliano d’Italia, quando è iniziata questa tua missione?
Tutto ha inizio da quando ho conosciuto Guinga nel 2003, compositore, cantante e chitarrista, nato nelle favelas di Rio. Abbiamo fatto dischi insieme (“Graffiando Vento”, 2004, “Dialetto Carioca”, 2007, ndr); ho suonato con lui in Brasile. Non conoscevo quasi niente del Brasile, dove ho scoperto il rapporto con l’emozione, ho visto teatri interi in lacrime, non pensavo fosse possibile. Ho pianto sul palco insieme a lui… 
Non voglio fare l’apologia del piagnone ma sono esperienze forti. Quando da tanti anni svolgi a un certo livello la professione di musicista, ti interroghi sul fatto che non hai mai visto niente di simile. Così per scherzo, ma non troppo, dico che se la storia dell’umanità si divide in due grandi epoche: Avanti e Dopo Cristo, la mia piccola si divide in Avanti Guinga e Dopo Guinga: sono intorno al 18 D.G. Tra l’altro, di Guinga nel disco riprendiamo “Saci”, ispirato a una delle creature del folklore afro-brasiliano. 

Il Brasile è un continente sonoro, la tua esplorazione continua?
Continua anche perché in questi anni, avendo frequentando tanto, ho altrettante relazioni professionali lì come qui. Ho amici e colleghi, possibilità di lavorare con musicisti brasiliani. C’è un radicamento, anche se negli ultimi anni ho rallentato un po’ per via della gravità della situazione economica più che politica. A Gennaio ero lì, a breve ci ritornerò. C’è una qualità della musica, dei musicisti, un senso profondo del farla. Una qualità del pubblico, se posso dirlo. C’è un modo di fare questo lavoro che è straordinario, per me è un enorme privilegio farne parte in qualche modo. Inoltre, mi ha dato un altra grande opportunità. Io invidio i ragazzi che oggi scoprono “La Sagra della Primavera” o Beethoven o “Kind of Blue” di Miles Davis: insomma, questi primi ascolti che hanno sconvolto la storia della musica. Io mi ricordo le sensazioni pazzesche di queste mie scoperte. Dopo tanti anni, pur ascoltando nuova bella musica, ma fatalmente le cose così grosse finiscono. Io in Brasile essendo totalmente ignorante, ho scoperto un continente intero, anche se ero formato musicalmente, per quel mondo ero totalmente vergine, ho dovuto ricominciare daccapo ad essere l’adolescente che scopre capolavori pazzeschi per la prima volta. Un altro motivo di gioia per me. 

Che differenza per te tra essere leader, suonare in un trio come questo o essere ospite sul palco o in una seduta?
In questo trio non c’è un leader. Ad ogni modo, c’è un modo diverso di porsi. È come quando inviti qualcuno a casa o se sei un ospite. Alla fine, la qualità della serata è la stessa in ogni caso. A piace molto la collaborazione, mi piace molto essere chiamato da musicisti che amo a fare l’ospite anche se è un situazione scomoda perché arrivi lì a suonare cose che non hai mai suonato con un gruppo di persone che suonano quelle cose dalla mattina alla sera.. Hai tutti i privilegi dell’ospite, ma se c’è uno che può rovinare la serata sei proprio tu… (ride, ndr). Questa cose mi stressa un po’ ma mi piace da morire, anzitutto perché accetto sentendo che c’è una ragione affettiva dietro. Non che io abbia tutta questa grande influenza sui biglietti o sui dischi venduti. Se musicisti che adoro pensano che posso portare quel pizzico di sale in un meraviglioso piatto che mancava solo dì quello sono lusingato e mi diverto come un pazzo. un Ho avuto sempre discografici, agenti e addetti stampa che mi rimproveravano di fare mille cose diverse, Invece, penso che sia fondamentale per un musicista. Se ho un mondo poetico e musicale non è che è venuto dalla nascita e dal DNA, ma deriva in larga parte dalla qualità straordinaria degli incontri con la creatività di  altri musicisti che sempre mi circondano. Dove la trovo la mia musica se non mi sporco le mai con quelle altrui?

Cosa ha in cantiere Gabriele Mirabassi?
È’ uscito un disco con Enrico Zanisi, un giovanissimo pianista di Roma: ha 29 anni ed un genio. Lì suoniamo improvvisazioni, pezzi nostri e lieder di Schumann, Poi sono in studio per registrare con due musicisti straordinari pugliesi: Nando Di Modugno e Pierluigi Balducci. Andrò in Brasile a registrare pezzi scritti per me da André Mehmari per clarinetto ed orchestra d’archi. Sto suonando molta musica da camera. È uscito da poco un secondo disco con Guinga.

State portando in giro il progetto?
Sì, ma non tantissimo per via del fatto che io sono oberato e che Taufic in inverno fa come le rondini e se ne torna in Brasile. Faremo Umbria Jazz. Lo scorso dicembre abbiamo fatto una cosa strepitosa in Trentino, ad Arte Sella, in una zona colpita dalla tromba d’aria lo scorso ottobre, ospitando noi il Coro Valsella e Mario Brunello È stata un’esperienza meravigliosa, dove abbiamo riletto anche la tradizione alpina intervenendo pesantemente sull’armonia. Il Coro è autorevole, tra i più antichi della regione, rappresenta la memoria storica del canto alpino, il luogo è quello che è: è stato emozionante.


Ciro De Rosa

Gabriele Mirabassi/Cristina Renzetti/Roberto Taufic – Agreste (S'ard Music/Egea, 2019)
A tre anni di distanza dal gustoso “Correnteza”, in cui veniva reso omaggio al repertorio di Antônio Carlos Jobim, il trio composto da Gabriele Mirabassi, Cristina Renzetti e Roberto Taufic torna con “Agreste”, album prodotto da Michele Palmas in cui i tre hanno raccolto undici brani che proseguono il percorso di ricerca intrapreso con il precedente, per estendere il raggio delle loro esplorazioni sonore e svelarci i tratti meno noti del Brasile. Il clarinettista umbro, il chitarrista italo-brasiliano di origine hondureña e la splendida voce della cantante bolognese si lasciano alle spalle le spiagge assolate e le palme, evocate in “Girl From Ipanema”, per addentrarsi nel verde scuro, selvaggio ed impenetrabile della Mata Atlântica e attraversare il grande deserto del sertão. Prendono, poi, il largo e fanno rotta verso l'Italia fino ad approdare, in un gioco di suggestioni e rimandi, incroci ed attraversamenti sonori, dapprima in Sardegna e poi in Abruzzo. Il mondo rurale dei caipira brasiliani e quello dei contadini italiani arrivano quasi a sovrapporsi, l’ambiente naturale che li circonda e il contatto quotidiano con la terra agreste si riflette allo stesso modo nella loro umanità e nel loro carattere. Nel titolo è racchiuso, dunque, il senso di questo lavoro in cui protagonista diventa la terra arsa, il suo silenzio e le radici che custodisce gelosamente. Addentrarsi nell'ascolto è l'occasione per toccare con mano il senso profondo del termine portoghese “interior”, un termine dalla doppia lettura che rimanda tanto all'interiorità ed alle proprie origini, quanto al concetto geografico di entroterra. Fino dalle prime note emerge come il trio approcci ogni brano con la medesima eleganza con cui maneggiava il songbook di Jobim, ma nel contempo emerge quell’approccio originale ed inconfondibile che mette al centro la cura per gli arrangiamenti, i timbri e le melodie. Clarinetto e chitarra dialogano, si inseguono, si incontrano e avvolgono magistralmente la voce della Renzetti che interpreta ogni traccia con raffinata sobrietà. Il viaggio di “Agreste” è un ritorno a casa, ma nel contempo un viaggio nell’interiore e nelle proprie radici che prende le mosse da due brani del repertorio di Dori Caymmi: la nostalgica elegia “Desenredo”, nella quale l’autore ricorda la sua giovinezza trascorsa nello Stato di Minas Gerais, terra natale della madre e l’antica leggenda avvolta dalla sinuosa melodia di “Estrela Da Terra”. Si prosegue con l’elogio all’amore “Fruta Boa” di Milton Nascimento in cui la voce della Renzetti si inserisce nelle trame melodiche costruite da chitarra e clarinetto, e che fa da preludio alla rilettura di “Monti di Mola” di Fabrizio De Andrè, che ci conduce in Sardegna. “Romaria” di Renato Teixeira ci riporta in Brasile con i pensieri di un uomo in sella al suo cavallo diretto al santuario di Pirapora alla ricerca della fede e di un sollievo per la sua vita da contadino. Le sponde del Brasile e quelle della Sardegna sembrano incontrarsi nella superba “Cio da terra” di Chico Buarque e Milton Nascimento, un inno alla terra e alla fertilità con l’immensa voce di Elena Ledda a duettare con quella di Cristina Renzetti. Il canto tradizionale abruzzese “Mare Maje”, meglio conosciuto come “Lamento di una vedova” è l’altra apertura verso l’interior italiano. Si cambia registro con la canzone politica “Disparada”, che risale ai tempi della dittatura militare instaurata in Brasile dopo il golpe del 1964, che spinse numerosi artisti a fuggire dalla loro patria, ma soprattutto a prendere posizione. “Morro Velho” di Milton Nascimento ci conduce verso il finale con la bella versione di “Saci”, firmata da Guinga e Pinheiro, in cui si racconta di un folletto legato alla cultura popolare afro-brasiliana e l’evocativa “Viver na fazenda” a cui è affidato la speranza di poter vivere un giorno in campagna. “Agreste” è, dunque, un omaggio del trio alla terra “umbra, sarda, abruzzese e brasiliana per averci lasciato passare e per essersi attaccata alle nostre scarpe”.



Salvatore Esposito

Posta un commento

Nuova Vecchia