In un momento in cui si guarda con nostalgia all’attivismo politico del nostro passato recente, rispetto ad una situazione odierna piuttosto scarica di intenti e azione, molte sono le occasioni dove ci si lascia travolgere dal fascino sessantottino. A rinnovare ancora una volta la forza e la bellezza di un momento storico senza eguali, è stato il concerto dedicato ai “Vent’anni del Sessantotto”, progetto prodotto da “Squilibri” e nato originariamente come un libro corredato da due CD che ripercorrono in maniera cronologica l’inizio e la fine dei tumulti di quell’anno. Chiaramente le radici del fenomeno affondano in diversi anni addietro fino ad esaurirsi intorno al 1989, con la più che simbolica caduta del muro di Berlino.
La scaletta del concerto si è sviluppata con una selezione di circa una ventina di brani contro i quarantacinque della raccolta. Indubbiamente è più semplice raccontare la storia attraverso ciò che è stata la musica che veniva ascoltata da chi era in prima linea ad esprimere i propri ideali e anche da coloro che, meno impegnati intellettualmente, fruivano delle hit del momento.
Con la brillante e puntuale direzione musicale di Alessandro D’Alessandro, lo spettacolo si è presentato come un “concert-tale” in cui sono stati scanditi i passaggi topici di quel particolare momento storico attraverso lo scorrere di immagini di repertorio altamente suggestive che hanno avuto la forza di condensare sentimenti, lotte e conquiste con uno sguardo grandangolare e internazionale.
Ad aprire il concerto Canio Loguercio con “La storia siamo noi”, facendo omaggio ad uno dei brani di maggiore impegno che De Gregori abbia mai scritto. Rapidamente, poi, l’attenzione viene spostata sulla situazione vietnamita con “Brother did you weep”, canzone contro la guerra, testimone della manifesta solidarietà da parte di molti artisti del folk britannico; Sarah Jane Ceccarelli ne regala una intensa versione, calata a meraviglia nello spirito della ballad di Ewan MacColl, impreziosita dalle suggestioni di Roberto Angelini che fanno riaffiorare con naturalezza le atmosfere del Regno Unito attraverso i suoi suoni rarefatti. Si torna nuovamente in Italia con una carrellata di documenti sulla “Battaglia di Valle Giulia” del marzo 1968, nella quale ci furono scontri di piazza tra manifestanti universitari e polizia,
nel tentativo da parte degli studenti di riconquistare l’occupazione della Facoltà di architettura appena sgomberata. Sono Alessio Lega e Bianca Giovannini che con frizzante piglio interpretano energicamente “Valle Giulia”, che Paolo Pietrangeli cantava accompagnato da Giovanna Marini. Scorrono ancora immagini di lotte studentesche ma in una cornice iberica che sottolinea tutto ciò che era la lotta al franchismo. Entrano quattro organetti dell’” Orchestra Bottoni” a preparare il tappeto alla voce calda e rassicurante di Antonella Costanzo, la quale sceglie “Che vuole questa gente” per il suo contributo.
Si spezza per un attimo il fil rouge della lotta per il diritto allo studio e vengono proiettate delle fotografie tratte dai reportage sui manicomi nel periodo in cui Franco Basaglia muoveva i passi più significativi verso un dissenso che troverà poi la sua reale concretizzazione solo nel 1980 con la legge che porta il suo nome. È di nuovo Alessio Lega che, come portavoce della musica popolare e d’impegno sociale, regala “Il numero d’appello” di Gianni Nebbiosi, brano contro la detenzione negli istituti psichiatrici.
L’occhio documentaristico si sposta ancora fino ad approdare oltre oceano a ricordare la realtà brasiliana nel momento del colpo di stato che instaurò una dittatura meno conosciuta di quella argentina o cilena ma altrettanto traumatica per la storia del Paese. Partono le note mentre conquistano il palcoscenico Peppe Voltarelli, Andrea Satta e Alessio Lega che si cimentano in una emozionante versione di “Camminando e cantando” di Sergio Endrigo. In particolare stato di grazia Peppe Voltarelli, con il suo caratteristico entusiasmo e la sua coinvolgente presenza scenica, esegue anche la bellissima “Combat” di Tito Schipa jr. Difficile cantare dopo Voltarelli e invece Massimo Donno con “Primavera di Praga” ci riesce con estrema eleganza, grazie al suo timbro pulito e raffinato. Sulla scia di tanta grazia, arriva in maniera del tutto inaspettata la performance strumentale di D’Alessandro che omaggia Adriano Celentano con una versione strumentale per solo organetto di “Azzurro”, un cameo estremamente poetico e trascinante.
Un viaggio musicale attraverso venti paesi lungo i quali si è diffuso il pensiero di libertà
che ha pervaso gli ambienti colti come anche quelli di una quotidianità densa di pragmatismo e piccoli sogni.
Il palco puntellato di moltissimi artisti è stato impreziosito dalla presenza di Theodoro Melissinopoulos e Carmelo Cacciola che con “Sotiris Petroulas” hanno dato quel sapore ellenico contemporaneo, appena preceduti da Monserrat Olvarria e Jamie Seves che invece hanno riportato a noi i sentimenti del più lontano Mexico.
Ultima, ma solo in ordine di apparizione, Gabriella Martinelli, che ha anticipato e introdotto il gran finale corale, dove tutti gli artisti si sono stretti intorno a “Il palo” , versione italiana del brano
l’ “Estaca”, a suggellare la chiusura dello spettacolo di Sergio Secondiano Sacchi. A tratti vagamente didascalico, il concerto ha suscitato reazioni positive, immergendo gli spettatori con tecnica proustiana in momenti che vengono ricordati con grande slancio di condivisione e con una emozionante fiducia nel futuro.
Viviana Berardi
Foto di Cristina Canali
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