Dopo 10 giorni di concerti ed eventi culturali, l’edizione 2018 dell’EFG London Jazz Festival giunge al suo weekend conclusivo. L’arduo compito di intrattenere il Barbican Centre di Sabato sera viene affidato all’Avishai Cohen Trio, ensemble di esperti che riempie il teatro con un reunion show atteso da anni da tutti i fan del contrabbassista israeliano. La formazione si è infatti riunita, evento raro, in occasione dei dieci anni dal debutto di “Gently Disturbed”, primo disco del trio. L’album è verosimilmente uno dei migliori lavori di Avishai, nonché una delle più influenti aggiunte al panorama jazz degli ultimi 10 anni. Col grande pregio di aver lanciato la carriera di due dei volti più influenti della scena, “Gently Disturbed” live è un piacere per le orecchie: un mix travolgente di sonorità, semplicità e complessità, estro e gusto.
Avishai Cohen non necessita presentazioni. Contrabbassista e bassista israeliano, inizia gli studi musicali come pianista per poi spostarsi ai bassi. Scoperto in America da Chick Corea, inizia a collaborare col celebre pianista, che lo prende sotto la sua ala pubblicando le sue prime composizioni con la sua etichetta Stretch Records, al fianco di colossi del jazz e della fusion quali Bob Berg, Dave Weckl e John Patitucci. Cohen è ora una delle grandi figure di riferimento del panorama jazz e world, grazie alle sperimentazioni compiute in anni di ricerca sonora, arrangiamento e composizione.
Come racconta sul palco, Avishai conosce Mark Guiliana a New York, dove il batterista frequentava concerti e jam sessions per trarre spunto da altri musicisti e migliorarsi. Guiliana è ora una delle figure più influenti della batteria, avendo sviluppato uno stile eclettico e multiforme, guidato da un gusto compositivo maturo, un’attenzione maniacale per i dettagli e una strabiliante destrezza tecnica. Il batterista compare su dischi di generi diversi, collaborando con David Bowie, Dhafer Youssef, Tigran Hamasyan, Gretchen Parlato, Brad Mehldau, Dave Douglas e molti altri.
Arruolato a soli 21 anni, il pianista Shai Maestro chiuse la formazione dopo aver rifiutato una borsa di studio per il Berklee College of Music di Boston.
Con numerosi premi alle spalle, il pianista israeliano si affaccia alla scena con un debutto che lo consacra a giovane prodigio del piano Jazz. Da allora Shai Maestro si è proposto principalmente come compositore e band leader, rilasciando cinque album.
Ad introdurre la serata abbiamo un quartetto capitanato da Trish Clowes al sax, con Ross Stanley al piano e all’organo hammond, Chris Montague alla chitarra ed un fantastico James Maddren alla batteria. Il gruppo presenta pezzi dal disco My Iris, rilasciato l’anno scorso dalla sassofonista. Il set si sviluppa su dinamiche basse ma mai statiche e con melodie contorte, sviluppate spesso su tempi dispari. Colpisce la competenza solistica di tutti i membri, facilitata da una comunicazione quasi invisibile tra i musicisti che non perdono un cambio di sezione. Maddren è la punta di diamante del complesso, mostrando una padronanza ritmica difficile da eguagliare. Librandosi come una libellula sui piatti e sulle pelli, esibendosi in giochi di tempo e modulazioni metriche, ha costantemente tenuto sulle spine la platea, estasiata ogni volta che lo ha visto rimarcare il battere all’inizio di nuove sezioni.
Dopo una breve pausa entra finalmente l’atto principale. I tre musicisti salgono assieme e non si perdono in convenevoli. Shai attacca con “Seattle” brano che apre non solo il concerto ma anche il disco, un lento movimentato armonicamente, che prende velocità quando contrabbasso e batteria si aggiungono all’intreccio. Parte il solo di contrabbasso, il primo di una lunga serie, che già anticipa i temi principali della serata: ricchezza melodica, poliritmia, delicatezza sonora e tanta perizia.
Guiliana trasporta immediatamente il pubblico in un mare di ritmi e “controritmi”, generando un senso di vuoto che si trasforma in euforia quando, come alla fine della giostra, la tensione si risolve e il batterista ti riporta a terra. Raggiunge il picco con il feature e le trame tessute in “Eleven Wives” pezzo più celebre di Gently Disturbed. Costruito su un incalzante 11/8 e, fondamentalmente, due sezioni riproposte con sfumature diverse via via più intriganti, con il pezzo che diventa un carro travolgente nelle mani di Guiliana.
Con una forte rottura emozionale il trio intona “Lo Baiom Velo Balyla”, ballad tratta da una melodia tradizionale ebraica che significa ‘né di giorno né di notte’. L’armonia colorita apre le porte ad una forte espressione solistica, che si consolida prima tra le dita di Avishai e poi tra quelle di Shai, che reinterpreta la melodia nell’ultimo giro del suo solo, conferendole sapori tipici del jazz e colori prestati dall’impressionismo classico.
Colpisce “Chutzpan”, brano vorticoso dove una melodia relativamente semplice si alterna ad un ritornello ballerino, sconnesso di primo acchito, ma sapientemente arrangiato se analizzato attentamente. Qui Avishai intrattiene con un assolo che stravolge il contrabbasso, suonato allo stesso tempo sia come vuole la tradizione, sia come percussione.
Il vero tesoro che fa urlare il pubblico, tuttavia, è “The Ever Evolving Etude”. L’intro semivuoto del brano vede Shai suonare note che potrebbero sembrare casuali, molto spaziate tra loro. Vedendo molta confusione sul volto della mia vicina di posto, probabilmente non troppo avvezza al repertorio, le ho suggerito di prepararsi. Il contrabbasso si aggiunge al piano in un unisono che sfocia presto in un incastro estremamente spezzato. Il pubblico reagisce con fischi di apprezzamento e applausi quando ai due, tornati all’unisono iniziale, si unisce Guiliana che ancora una volta ridefinisce lo spazio ritmico, già complesso, rendendo la melodia ancor più accattivante. I musicisti si alternano in più assoli che rimarcano nuovamente la competenza musicale del trio, il tutto in un tumulto poliritmico di intensità sbalorditiva.
L’intero concerto della formazione si declina attorno a parametri simili a quelli dei brani precedenti. Nonostante il gruppo sia solamente un trio, gli arrangiamenti dei pezzi risultano sempre freschi ed in evoluzione. Il vocabolario solistico e melodico sorprende per la sua complessa semplicità: spesso nel mondo jazz si tende a sfoggiare la propria capacità tecnica con esuberanti ed interminabili assoli, dove la tonalità si perde nei sali scendi di scale consonanti e dissonanti e nella poca varietà ritmica. Il trio mantiene invece un linguaggio gradevolmente familiare, mai prolisso ed esposto con estro invidiabile ed un’eleganza ritmica che gli donano prestigio ed eludono la ridondanza. In altre parole, Avishai Cohen Trio si esibisce per un pubblico jazz, ma suona musica apprezzabile da chiunque, pur essendo tecnicamente esigente. Un’esibizione così ricca lascia solo sperare in una possibile futura reunion, evento tuttavia improbabile, ma che esalta ancor più l’importanza emotiva ed artistica di questo concerto.
Edoardo Marcarini
Foto di Tatiana Gorilovsky for EFG London Jazz Festival