Benvenuto a questo “Manuale per vivere nella sconfitta” e grazie alla docente, saggista e scrittrice Silvia Albertazzi, professoressa del Dipartimento di Lingue, Letterature e Culture Moderne di Bologna per avercelo donato. Benvenuto nel paese Italia che si è accorto con imperdonabile ritardo dell'opera di Leonard Cohen. E' la prima volta che ci si occupa in maniera seria di un'analisi dell'intera sua produzione letteraria e dunque questo libro non avrà il benché minimo interesse per tutti quelli che intonano "Hallelujah" ad ogni matrimonio o concorso di voci canore. Un libro che omette completamente gli aneddoti della sua biografia e che non contiene nessun capitolo con una selezione di testi tradotti. Un volume che si rivolge a chi conosce bene e ama anche i libri di poesie e i romanzi di Cohen, non solamente a chi ha seguito le canzoni contenute nei dischi. Nel 1967 al momento della pubblicazione del suo fantastico esordio su vinile, Cohen aveva già dato alle stampe ben quattro raccolte di poesie e due romanzi. Questo “tradimento” non gli fu perdonato dai letterati e gli costò molto caro in termini di pace psichica. Ma la poesia non gli permetteva di vivere e quella chitarra che da sempre giaceva nascosta dietro ai versi fu presa in braccio definitivamente. Da una costola del poeta nacque il cantautore. E mentre prima le poesie erano indirizzate verso un “dentro”, le canzoni presero la via del “fuori” di sè. Quindi anche verso noi tutti, per nostra somma fortuna, mi vien da dire. Forse non ci sarà più uno come Leonard Cohen. Per fortuna resteranno almeno le sue straordinarie liriche. Le melodie d'amore e odio cantate dalla sua voce sono rimaste aggrappate alle nostre anime. Anche quando la nostra mente non capiva il significato delle loro parole. E le percorrevano in continuazione, dal basso verso l'alto, verso vette che non sapevamo ci appartenessero. E scoprimmo la bellezza della solitudine, perfino la sconfitta aveva un altro sapore. I suoi dischi sembrano dirci continuamente che è la bellezza stessa a nascere dalla sconfitta. E I suoi libri “sono un modo di cantare il nostro cammino fuori dal buio”. Come se prima ci fosse stato solo silenzio, il maschile e il femminile furono toccati dal suono di queste parole e tentarono l'impossibile sogno di suonare insieme una poesia che vincesse la noia universale “anno dopo anno, mese dopo mese, giorno dopo giorno, pensiero dopo pensiero”. L'autrice, già nella seconda pagina del volume, sentenzia che “chi scrive di Cohen finisce per parlare di sé”, siano essi biografi o ammiratori, giornalisti o scrittori. Anche il sottoscritto non sfugge alla regola. Cohen arrivò all'improvviso nella mia adolescenza, in quella età dove si bussa alla porta della poesia tutti i giorni e puntualmente la si trova chiusa. Nelle parole di Cohen si intrecciano anime inquiete e immagini decadenti. Quando le incontri tutte quelle parole iniziano a scendere su di te come grappoli luminosi fuori dal tempo. La stessa immagine che alcuni decenni dopo ritrovai in “Love Itself” dove le semplici particelle di polvere che si muovono confusamente, se attraversate da un fascio di luce che entra nella stanza, vengono rese visibili ai nostri occhi e l'amore di una creazione si può intravedere tutto intero. Di questa materia è fatta una canzone di Leonard Cohen. Nelle sue righe l'anima è naufragata, alla deriva, la collina e l'alleluia si spezzano, i bimbi hanno addosso brandelli di luce, la poesia è fede, fede nella parola. Per decenni il poeta ha intercettato ogni tipo di desiderio e di bramosia, di solitudine e di redenzione. In ogni sua poesia è presente il corpo, sullo spartito e in mezzo all'inchiostro sono quasi visibili frammenti di carne. Le sue creature vibrano di sensualità nell'attimo sacro in cui “la parola si fa carne”, la poesia è una preghiera a cui è la carne più che lo spirito a dover rispondere. E lui, il poeta, chiede perdono per aver sempre inseguito e a sua volta essere stato inseguito dal corpo. Nei suoi libri, Cohen afferma che la poesia ti fa sentire come una suora e cioè “sposato con un mistero”, che la differenza tra vita e arte è la stessa tra scegliere o meno di ascoltare un grido di dolore e occuparsi piuttosto di tutto quello che lo ha generato, che il passato è un lungo elenco di cicatrici rimaste a tracciare il cammino di un uomo alla ricerca della bellezza. E alla fine di “Belli e perdenti” dopo che i "poveri uomini se ne sono andati, finiti e fuggiti” l'unica alternativa al silenzio rimane una “nuova pelle per la vecchia cerimonia” e la nuova forma, dopo la poesia scritta sarà la canzone. Tutti allora scoprimmo così la sua voce. Una voce che al pari dell'Ultima Cena di Leonardo da Vinci, penso dovrebbe essere dichiarata dall'Unesco, patrimonio dell'umanità. Una voce e delle frasi che incantano. E l'autrice sottolinea che, secondo l'etimologia latina, “incantato” significa “legato al canto” ovvero “introdotto dal canto in uno spazio sacro”. Leonard Cohen con soli quattro accordi, una voce da “vecchio noioso” e le sue canzoni dove è il corpo a guidare la mente, è riuscito come nessun altro, a portare i sentimenti e le angosce universali al di fuori dello spazio e del tempo. E le sue lente canzoni “blues europee” non le ha mai intese come tristi solo perché descrivevano una autentica sofferenza interiore. Tanti anni fa dichiarava “Le mie canzoni sono come le Volvo: partono piano ma durano trent'anni." Non possiamo che concordare che “se l'arte è un sogno impossibile di perfezione che si scontra con la storia che invece è un incubo di mostruosa imperfezione, l'unico modo per esorcizzare i nostri demoni è trasformare l'incubo in canzone”. Cosa che appunto Leonard Cohen ha fatto con insuperabile maestrìa. Silvia Albertazzi ci ricorda comunque che fin dalle origini la poesia si è sempre identificata con il canto, che la cosiddetta poesia lirica viene così denominata proprio a testimoniare lo strumento musicale che accompagnava le voci degli aedi, dei rapsodi, degli scaldi scandinavi, dei bardi celtici, dei trovatori provenzali, dei salmisti biblici. Sant'Agostino affermava che “Chi canta prega due volte” e Joseph Addison che “La musica è tutto ciò che abbiamo quaggiù del Paradiso”. Grazie alla sua incomparabile voce, i “ventisette angeli dal grande aldilà” che lo costrinsero al tavolo della scrittura, hanno così visitato ciascuno di noi. Noi che, nel percorrere le strade dei sogni, ci muoviamo in precario equilibrio tra speranza e disperazione, combattendo sempre le stesse battaglie e conducendo sempre le medesime vite mediocri. E i ventisette angeli ci portarono in dono gli strumenti, davvero efficaci, di estrema sopravvivenza e difesa contro la desolazione e il panico, che sono le sue canzoni. Un passo prima della fine, Cohen ha cantato: “Grazie alla sofferenza, dichiaro che ho vinto!” Lui sosteneva che per vivere in eterno bastasse scrivere una riga o due. E' una bella frase, ma non sò se è la verità. La verità è che lui ha vissuto una vita meravigliosa, quasi una vita intera accanto alla brace viva, avvinghiato ad un dèmone che lo ha nutrito e avvelenato col suo mistero. La verità è che era cortese e gentile e davvero non usò mai intossicanti con i suoi amici e la sua ospitalità fu semplice e formale: iniziò mentendo come tutti, con Suzanne non ci disse la verità, salvo per il thè all'arancio proveniente dall'Oriente, ma, a differenza di quasi tutti gli altri, subito dopo si spogliò nell'essenza umana senza pudore, attaccando quei trattati di psicanalisi che sono Master Song, The Stranger Song, Teachers, Avalanche, Last Year's Man, Sing Another Song Boys, Death Of A Ladies' Man. Fece la sua parte, non si sposò mai, condivise le pene di molti, donò poesia senza risparmiarsi. Le sue canzoni sono le garanzie per il nostro futuro. Era vecchio anche quando fu giovane e per questo in lui il passato e il futuro si incontrarono. Non sono un feticista ma nel riguardare l'indirizzo di Los Angeles e il numero di telefono scritti di suo pugno accanto ai suoi fraterni saluti con il mio nome, ora che lui non c'è più, mi vengono le lacrime agli occhi. Come la prima volta che, dopo un paio di ore di nave da Atene, in mezzo tra il Golfo Argolico e quello Saronico sulla costa orientale del mar Egeo, ad est dell'istmo di Corinto, mi apparve finalmente la baia a forma di ferro di cavallo di Hydra. L'isola è tutta scalinate di pietra e sentieri stretti che a guardarli li vedi verticali, solo i poveri, eroici muli ce la fanno a salire portando il peso di gente e valigie. Anche Cohen sbarcò qui il giorno 14 di Aprile del 1960, ben prima che iniziassimo a venire sedotti dalle sue parole: “A Montreal c'era vento, le foglie secche sbattevano contro le finestre dell'ospedale omeopatico. Tutti si buttavano su di me come se fossi una palla da football. Cominciarono a darmi delle cose per poi togliermele, ciò che non andava bene veniva ributtato nel vuoto. I doni furono molti, proprio come gli ammonimenti che li accompagnarono: ti doniamo un grande cuore ma se comincerai a bere vino inizierai ad odiare il mondo, la luna è tua sorella ma se prendi i sonniferi troverai la compagnia di donne infelici, ogni volta che afferrerai l'amore perderai una falda della tua memoria.”
Flavio Poltronieri
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