Michel Godard & Ihab Radwan – Doux désirs (Dodicilune/I.R.D., 2017)

Agli inizi di settembre di ogni anno, raggiungere Ruvo di Puglia per il Talos Festival rappresenta una preziosa occasione di scoperta ed incontro con musicisti straordinari. E’ il caso di Michel Godard che, lo scorso anno, mancammo proprio in occasione della presentazione dal vivo di “Doux désirs” e che non ci siamo lasciati sfuggire nell’ultima edizione a margine delle due serate in cui è stato ospite nei set del Coro di Voci Bulgare “Angelite” e dei Fratelli Mancuso e in cui è stato tra i mattatori de La Notte della Banda. Davanti ad una buona pizza e ad un bicchiere di vino rosso pugliese, abbiamo colto l’occasione per ripercorrere la sua vicenda artistica e soffermarci su “Doux désirs”, album pubblicato lo scorso anno dall’etichetta salentina DodiciLune e nato dalla collaborazione con il maestro egiziano Ihab Radwan, virtuoso dell’’ûd. Composto da dodici brani originali, firmati ora singolarmente ora a quattro mani, il disco offre all’ascoltatore un viaggio tra epoche differenti nell’incontro, sulle trame del jazz, tra musica rinascimentale e strutture musicali mediorientali. Una combinazione di mondi musicali affascinante e ricca di sorprendenti intuizioni musicali. 

Partiamo dai tuoi primi passi nel mondo della musica. Quali sono state le tue prime esperienze artistiche?
Ho cominciato a suonare la tromba a nove anni nella banda della Peugeot. I miei genitori lavoravano in fabbrica e ogni stabilimento aveva una banda con una scuola di musica, spesso di livello molto più alto del conservatorio. 
All’epoca c’era la volontà politica di portare la cultura nel mondo operaio. Il mio insegnante di tromba era polacco ed era pagato dalla Peugeot come un operaio specializzato, ma era solista nella banda e poi teneva lezioni di musica. Era tutto un altro mondo quello in cui sono cresciuto musicalmente. Era tutto molto bello. 

Cosa ti è rimasto dei tuoi esordi nella banda della Peugeot?
Le bande francesi pur avendo un suono un po’ diverso sono molto simili a quelle dell’Italia Meridionale soprattutto per la funzione sociale che rivestono. Il repertorio è abbastanza simile e prevede trascrizioni di composizioni di musica classica e anche composizioni nuove ma comunque legate alle radici della banda. Ho mantenuto sempre un legame molto forte con la banda, anche quando passai agli studi in conservatorio. Ogni volta che sento una banda che suona mi emoziono e sono sempre felicissimo. Quello che mi sorprende sempre è come nella banda non ci sia una frontiera tra arte e cultura popolare perché sono la stessa cosa.

Successivamente sei passato poi a suonare alla tuba…
Dopo l’esperienza nella banda, a diciassette anni sono andato a studiare al conservatorio, dove ho incontrato un insegnante di tuba, un musicista molto in gamba, il quale mi consiglio di provare questo strumento. Fu così che cominciai a suonare la tuba in varie formazioni di musica classica come l'Orchestre Philharmonique de Radio France, l'Orchestre National de France e l'Ensemble La Fenice di Parigi.

C’è stato, poi, l’incontro e la scoperta del serpentone…
Quando nella mia prima vita suonavo musica classica avevo già la passione per la musica antica e quella rinascimentale. La eseguivo partendo da trascrizioni moderne per basso tuba e pian piano mi sono messo alla ricerca di una via che fosse più filologica. Volevo trovare uno strumento per suonare davvero quella musica e capirla più a fondo. Non si può comprendere bene un certo tipo di musica senza suonare gli strumenti che la caratterizzano, diversamente ci si può solo avvicinare alla sua conoscenza. Così decisi di riscoprire il serpentone, l’antenato del basso tuba, ed è nata una grande passione. Quando ho cominciato ad avvicinarmi a questo strumento non lo conosceva nessuno ed era anche ascoltare il suo suono nei dischi.

Puoi descriverci questo strumento?
Gli strumenti moderni sono concepiti per essere suonati facilmente e con maggior precisione possibile, mentre quelli antichi erano pensati per imitare la voce umana e le sue sfumature. Nel suonare il serpentone bisogna partire proprio dall’imitazione della voce che può essere di basso, baritono o tenore. Il serpentone appartiene alla famiglia dei cornetti ed è composto da un bocchino e da un tubo in legno di castagno forato e a forma di serpentina, avvolto da una guaina di cuoio, elemento questo fondamentale nel suono inimitabile di questo strumento che si pone tra corno, trombone e fagotto. 

Quali sono le potenzialità espressive del serpentone?
Quando anni fa suonavo più musica jazz avevo bisogno del basso tuba, mentre il serpentone diventa fondamentale nell’incontro con la musica araba, quella rinascimentale e la musica tradizionale italiana perché il suo suono viene dal passato ed è fatto per suonare con le voci. Suonando il serpentone riesco ad esprimere cose che sarebbe difficile fare con il basso tuba, posso catturare l’attenzione del pubblico con poche note.  E’ un vero incanto naturale ed ha un fascino incredibile. Mai come in questo periodo abbiamo esigenza di riscoprire l’intensità di queste vibrazioni sonore. La tuba, al contrario, ha un suono troppo forte per suonare con le voci e richiede un virtuosismo tale da dimostrare che uno strumento così grande sia anche agile.

Quanto è stato difficile incrociare la musica rinascimentale e quella araba con il jazz?
E’ difficile farlo con gusto perché bisogna conoscere bene entrambi gli ambiti quello jazz e quello della musica rinascimentale. Ho studiato molto seriamente questo tipo di musica e ho sempre cercato di suonarla nella sua purezza filologica per capire come funzionasse per entrarci dentro. Non è facile trovare musicisti che sono capaci di capire le impostazioni del jazz senza fare una caricatura della musica rinascimentale. Insomma tutto è molto facile se non si tiene presente il gusto.

Come si è evoluto, negli anni, il tuo approccio esecutivo al serpentone?
Negli ultimi anni questo strumento ha avuto uno sviluppo pazzesco. Agli inizi, quando ho cominciato a suonarlo credo che in tutto il mondo eravamo in dieci, mentre oggi siamo in tanti e questa è una cosa positiva. Dal 2002 insegno il serpentone al Conservatorio di Parigi e molti dei miei allievi sono diventati professionisti. Personalmente ho fatto molte ricerche su questo strumento. 

Hai fatto riferimento alla musica tradizionale italiana e in questo senso mi piace ricordare la fortunata esperienza con Trio Rouge con Lucilla Galeazzi e Vincent Courtois…
La musica tradizionale italiana ha nella melodia un potere fortissimo a differenza di quella francese che non ha tutta questa ricchezza perché è musica da ballo in molti casi. Lucilla ha in testa tante melodie meravigliose e quando suono con lei ogni brano che mi propone è sempre bellissimo. Quando canta un canto della sua terra o un canto tradizionale salentino o “Bella Ciao” o ancora una canzone composta da lei scopro sempre melodie meravigliose.

Lucilla Gaelazzi è stata protagonista insieme a te di due splendidi album dedicati a Castel Del Monte, di cui il primo è stato realizzato insieme a Pino Minafra…
Non ricordo da quanti anni conosco Pino Minafra ma sono tantissimi e grazie a lui abbiamo registrato questi dischi, ormai più di venti anni fa. All’epoca ebbero un grande successo in tutta Europa ed in particolare in Francia ed in Germania. Il primo disco lo incidemmo con Pino, mentre nel secondo non c’era. 
Adoro suonare ed incidere dischi nelle chiese o nei castelli perché la musica assume un tratto ed una purezza unica. 

So che hai in animo di pubblicare prossimamente un nuovo disco dedicato a Castel Del Monte, sarebbe la conclusione di una trilogia vera e propria.
Mi piacerebbe molto e ho già parlato con l’etichetta che è completamente d’accordo. E’ un’idea che stiamo coltivando. Quel posto imprime una forza incredibile alla musica. E’ una struttura magnetica. Sarà un disco di composizioni nuove ma che hanno un legame forte con la musica antica e rinascimentale. In quel posto non si può certo suonare senza fare questo tipo di musica. Come ti dicevo, mi piace molto ricercare luoghi in cui suonare che hanno questo tipo di energia. Andare là con alcuni musicisti e vedere come reagiscono alla potenza che emana quel posto. 

Sempre con Pino hai inciso il famoso album con la Banda di Ruvo di Puglia…
Quel disco ha avuto un grande successo in Germania e anche in tanti festival di musica contemporanea. Il pubblico apprezzava sia la parte contemporanea dei concerti sia quella tradizionale. La banda è una forma di bellezza pura.

Altra collaborazione importante in Italia è quella con Roberto Ottaviano…
Roberto lo conosco da tantissimo tempo, dall’epoca in cui suonavamo con Pier Fava. E’ un musicista straordinario ed anche dal punto di vista umano è una persona eccezionale. 
Ho partecipato nel 2015 alle registrazioni di “Astrolabio”, altro disco uscito per DodiciLune. Sempre per l’etichetta pugliese ho partecipato al disco di Rino Arbore “The Roots Of Unit”. Sono due lavori molto belli e che consiglio di ascoltare con attenzione. 

Veniamo a “Doux désirs”. Com’è nata la collaborazione con Ihab Radwan?
Per oltre quindici anni ho suonato con Rabih Abou Khali, suonatore di ûd libanese e mi ha sempre affascinato questo strumento. Proprio in occasione del’ultimo concerto con Rabih ho conosciuto Ihab Radwan che, con il suo gruppo, apriva la serata. Mi piacque molto il suo suono, tanto è vero che ci fermammo a parlare a lungo. Ero in procinto di dedicarmi ad altre cose e, dunque, la nostra collaborazione non si è concretizzata subito. Del resto se suoni con un suonatore di ûd non puoi cambiarlo all’improvviso. E’ un po’ come nel rapporto con una donna. Successivamente ci siamo ancora incontrati con Ihab e, due anni dopo, abbiamo cominciato a suonare insieme e a provare, finché non è nata l’idea di realizzare questo disco insieme. 

Dal punto di vista della ricerca musicale, cosa ti ha colpito del modo di suonare l’ûd di Ihab Radwan?
Quando ascoltai per la prima volta Ihab notai la sua particolare cura per l’intonazione dello strumento, proprio come facevano i vecchi suonatori tradizionali. Lui non parla solo di quarti di tono o di intonazione diversa, mette in pratica queste cose. 
In questo c’è un fortissimo legame tra la musica araba e quella rinascimentale perché usano più o meno le stesse intonazioni che sono diverse da quelle della musica classica. In quella occasione cominciammo a parlare di queste cose perché con il serpentone sto cercando di ritrovare l’intonazione vera di questo strumento e l’incontro con Ihab mi ha aiutato molto. 

Cosa ti ha colpito del suo approccio alla musica?
La musica di Ihab è tutta melodia e quello che suona ha un ritmo pazzesco. Non ha bisogno di dimostrare di saper suonare su ritmi complicati e questo è molto bello perché alcuni musicisti cercano ritmi dispari per dimostrare il loro virtuosismo. Ihab non ha nulla da dimostrare perché porta tutto dentro di se e ha improntato la sua musica alla melodia è questo il motivo che mi ha spinto a collaborare con lui.

Quali sono state le difficoltà che hai incontrato nella collaborazione con Irahb?
Le difficoltà ci sono sempre e già sapevo quali e quante sarebbero state. Tuttavia l’esperienza fatta con il mondo arabo mi ha aiutato molto ed, alla fine, lo scoglio principale è far capire che il nostro è un mondo musicale diverso con il quale bisogna interagire. Grazie al jazz e alla sua impostazione noi possiamo andare verso la musica araba e i musicisti mediorientali possono compiere il cammino che li avvicina alla nostra.

Qual è stato il territorio musicale in cui tu e Ihab vi siete incontrati?
In “Doux désirs” ho puntato su elementi di musica rinascimentale perché quella mi sembrava la strada strada giusta per avvicinarmi alla tradizione araba. I punti di contatto sono veramente tanti.

Concludendo. Ci puoi dare qualche anticipazione sui tuoi progetti musicali future, oltre al già citato terzo album su Castel Del Monte?
Agli inizi del prossimo anno ho in programma di far uscire un nuovo disco con Ihab che si intitolerà “Un egiziano a Venezia” e che sarà pubblicato ancora da DodiciLune. Rappresenta un po’ la prosecuzione del primo lavoro perché propone un incontro tra musica rinascimentale e musica araba del Seicento e del Settecento. Alle registrazioni hanno partecipato anche altri musicisti tra cui un suonatore di cornetto e una cantante barocca. 



Michel Godard & Ihab Radwan – Doux désirs (Dodicilune/I.R.D., 2017)
Utilizzato in Europa a partire dal XVI nell’ambito della musica liturgica e successivamente rimpiazzato nelle orchestre jazz dalla tuba, il serpentone è un aerofono a bocchino dal suono antico e allo stesso tempo ricco di grande fascino e solo raramente capita di ascoltarlo nei dischi, se non ad opera di Michael Godard, considerato uno dei più autorevoli maestri di questo strumento. Ben noto come eclettico suonatore di basso tuba, il musicista francese, nell’arco della sua ultratrentennale carriera, ha dato ampia prova del suo eclettismo non disdegnando esplorazioni sonore ardite e sempre cariche di elementi di novità, per concentrarsi più recentemente nella ricerca sia della originaria espressività del serpentone, ma anche di nuovi sentieri, partendo dal dialogo e dall’incontro con altri strumenti. In questo contesto si inserisce “Doux désirs”, album nato dalla collaborazione con l’egiziano Ihab Radwan, suonatore di ûd dalle radici ben piantate nella tradizione musicale islamica. Rispetto all’esperienze con Rabih Abou Khali, questo nuovo lavoro di Michael Godard si pone su un piano differente, schiudendo all’ascoltatore le porte per un vero e proprio viaggio sonoro che si dipana tra passato, presente e futuro, il tutto prendendo le mosse dalla musica rinascimentale passando per i suoni del Medio Oriente e toccando in fine il jazz e l’improvvisazione. Registrato nel gennaio del 2016 a Cavalicco (ud) e composto da dodici brani, firmati singolarmente e a quattro mani, il disco è intriso di passione e profondo senso di empatia tra i due musicisti che, partendo dai rispettivi background musicali, hanno cercato un territorio comune nel quale prendere le mosse per poi lanciarsi in un itinerario che riserva sorprende ascolto dopo ascolto. L’interplay si sviluppa brano dopo brano con un rigore e rara intensità, alternando momenti di introspezione velati di nostalgia a spaccati più vivaci, senza che le rispettive individualità prendano il sopravvento. Michel Godard non manca di misurarsi con la tuba, così come di imbracciare il basso elettrico, tenendo fede alla sua proverbiale versatilità nel destreggiarsi tra strumenti differenti. Laddove le corde dell’ûd di Ihab Radwan evocano un Medio Oriente immaginifico, le tessiture jazz del serpentone ci riportano alla contemporaneità in un continuo gioco di rimandi avanti e indietro nel tempo. Aperto dalla elegantissima trama melodica di “Su l’onda d’amore” in cui si ascoltano echi di musica tradizionale italiana, l’album ci regala subito uno dei suoi momenti più alti con “In The Grotte”, un brano giocato sull’improvvisazione a tutto campo della tuba di Godard che svela le connessioni possibili tra jazz e musica mediorientale. Ritmi e melodie vengono declinati con raffinata ricercatezza come nel caso di “Tenderness” o de “Il goloso” nel quale ûd e serpentone si rincorrono e si confrontano in modo sorprendente. La tradizione musicale del Medio Oriente evocata in “Dahab” di Radwan e la gustosa “Acqua Alta” ci introducono, poi, a “Serbia” nella quale i duo esplora i suoni dei Balcani prima di regalarci “Malato d’amore”, brano che rappresenta il vertice di tutto il disco e nel quale si ascolta la voce di Radwan che, in questo senso, avrebbe meritato un peso specifico differente. Il trittico composto da “Love at first sight”, “À la folie” e “ A Trace of Grace” completano un lavoro straordinario che documenta l’incontro di questo duo del quale certamente sentiremo parlare ancora a lungo. 


Salvatore Esposito

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