John Smith - Hummingbird (Commoner Records, 2018)

John Smith, nonostante un nome e cognome così ordinario, è una delle eccellenze del folk d’autore britannico, forse il miglior esponente di quelle scuole inglese che parte da Nick Drake e arriva a Alexi Murdoch. Alla sua quinta prova (esclusi live e bonus CD, venduti esclusivamente ai concerti e tramite il suo sito) Smith ha costruito un solido seguito di fan che lo ha incoraggiato fin dagli esordi prettamente indie-folk, fino all’Americana di “Great Lakes”, prodotto da Joe Henry, ad oggi, forse, il lavoro più bello, al mezzo passo falso pop del precedente “Headlong” (2017), che gli ha fatto sicuramente guadagnare nuovi estimatori in ambito mainstream, ma aveva spiazzato chi aveva seguito dall’inizio questo bravissimo cantautore di Liverpool. Con il nuovo “Hummingbird”, Smith fa il suo back-to-basics: tre composizioni originali, fra cui la bellissima title-track, una riedizione del classico “Axe Mountain” e sette tradizionali, alcuni associati al repertorio di alcuni musicisti che Smith considera i proprio idoli; “Lord Franklin” (Renbourn), “The Time has Come” (Jansch, ma anche Ann Briggs), “Master Kilby” (Nic Jones): tutti brani che da anni fanno parte del repertorio live del cantautore, e altri (”Willie Moore” ad esempio) che pagano pegno a roots decisamente americane. Il produttore (Sam Lakeman) e l’etichetta sono le stesse del disco precedente, ma atmosfere e sound sono diametralmente apposte: chitarra e voce e poco altro, qualche ospite occasionale (Cara Dillon), una bella voce, meno sporca che agli inizi, e una chitarra come sempre impeccabile e dal fraseggio interessante, anche di fronte a accompagnamenti apparentemente semplici e ordinari. Anticipato dai singoli “Willie Moore” e “Hummingbird”, il disco non tradisce le attese: mestiere, passione, tecnica e un gusto raffinato confermano la grandezza di Mr. Smith, dopo una lunghissima gavetta come supporting act di grandi come John Martyn, Richard Thompson e Jackson Browne. Non c’è un brano che possa essere considerato minore o riempitivo ma le preferenze del recensore vanno alla title-track, all’altro originale “Boadica”, la traccia che più ricorda gli esordi e che potrebbe tranquillamente appartenere al primo disco, ”The Fox and the Monk”, e al tradizionale rielaborato, “Hares on The Mountain” diversissima dalla versione che fece conoscere gli Steeleye Span, raffinata e gentile con John McCusker (compagno di Smith nelle Transatlantic Sessions) al violino e al whistle. Un bel lavoro per il giovane songwriter (ora anche folksinger), che speriamo contribuisca finalmente ad accrescerne la fama anche in Italia. 


Gianluca Dessì

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