Lo spettacolo replica quello precedentemente presentato in Sala Macondo – Pro Loco Marano di Valpolicella (Verona) il 27 Marzo scorso con Grazia De Marchi al canto, Marco Pasetto al clarinetto, Thomas Sinigaglia alla fisarmonica, Paola Zannoni al violoncello, Olga Manganotti alla voce (poesia) e al canto e Andrea Brugnera alla voce narrante. E' un recital che nasce da un'idea di Paola Zannoni, a seguito del fortuito ritrovamento in un cassetto degli spartiti composti dal padre Enzo, fisarmonicista conosciuto negli ambienti di teatro d'avanguardia veronese degli anni '70, sulle amate poesie di Cesare Pavese. Il teatro di protesta e la riscoperta della musica popolare erano un connubio frequente in quegli anni e nello spettacolo l'ombra lunga del valzer tratteggia i versi disperati di questo grande poeta dal viso scolpito nella pietra, nato in una grande casa ombreggiata dai cipressi nelle Langhe piemontesi. La narrazione parte dalla morte per tornare alla vita, attraverso i periodi cruciali della sua esistenza, dipingendo tutta un'epoca lontana e perduta del nostro Paese allora stretto tra dittatura e dopoguerra, dove Pavese interpretò uno scorrere del tempo tragico tra città e campagna, passioni e resistenza, dolore e atrocità. E' misterioso il fascino sottile che emana questa figura di scrittore e uomo, ne fui rapito in adolescenza ed era strano perchè a scuola non me lo facevano studiare, però nella mia vita divenni sempre amico di chiunque amava l'opera di Pavese. Come per un filo invisibile di unione. Il disagio alla vita che emerge da ogni sua parola può risultare insopportabile o affratellante. Più o meno la stessa cosa mi accadde solamente con l'opera di Leonard Cohen. Per Cesare Pavese, la vita era stata, probabilmente, un mestiere esageratamente duro da portare avanti senza le ambizioni di cui di solito si servono gli uomini. Sul palcoscenico del Modus, nelle stanze del racconto si susseguono tutte le sue immagini: Leucò, l'uomo mortale e Deola che fuma pacata, mostrando il profilo allo specchio, l'eroicità di un gesto definitivo e le umili sartine, l'assenza al proprio fianco dello sguardo di riconoscenza di una donna, l'esaltazione del lavoro e gli amori letterari americani, Moby Dick e il cugino Silvio con le sue avventure nei mari del sud, quel mare immaginato oltre Canelli, il suicidio del compagno di classe Elico Baraldi e il Liceo Massimo D'Azeglio di Torino, il confino a Brancaleone Calabro, i morti di resistenza e i morti nemici, Leone Ginzburg torturato e assassinato dai tedeschi a Regina Coeli e l'estraneità del poeta agli avvenimenti della tragedia bellica, l'amarezza di una censura puritana anzichè politica, la ferocia distruttiva del dio caprone e l'impotenza, i fuochi di gramigna dei contadini nel buio e l'alba bruciata del futuro.
Il suono del clarinetto ci ricorda di Giuseppe (Pinolo) Scaglione, il falegname di Santo Stefano Belbo che fu il Virgilio di Pavese, che lo prese per mano e lo accompagnò a conoscere il mondo contadino da cui nascerà “La luna e i falò” e che nel romanzo chiamò Nuto (diminutivo di Benvenuto) facendolo diventare un personaggio letterario e da allora tutti in paese lo chiamaranno così. E tutto questo lo respiri quando vai a Santo Stefano Belbo ed entri nel caffè sotto i portici in piazza, le grandi foto di Cesare Pavese e di Nuto ti prendono subito allo stomaco. E' inutile resistere. E te lo vedi Nuto che, seduto sopra un muretto a Castino, lungo la strada che scende a Cortemilia, racconta a Cesare, che nel mondo contadino non si può proprio non credere ai poteri della luna. Ho attraversato più volte i boschi e i paesini di pietra in mezzo alla Val Bormida, in direzione della Liguria alla ricerca con gli occhi di colline come quelle descritte da Pavese e le ho trovate. E ho pensato che se il delirio, le attese, l'ingenuità sono lunghe anni, è sempre in pochi minuti che si compie il destino di un uomo. Ho amato le parole di Pavese, quel suo desiderio di eternità oltre l'immobilità marmorea, la ricerca ossessiva dell'origine dell'ansia e dell'angoscia nelle stratificazioni del mito, nella voce degli antenati, nell'inconscio, la ricerca di una forza originaria. Fino agli estremi punti. Fino a mutare in dramma perfino ciò che non gli fu concesso di vivere. Non era un ambizioso, desiderava solamente che il suo talento venisse riconosciuto, esattamente come Nick Drake tanti anni dopo e, curiosamente, beffardamente, entrambi hanno lasciato la loro vita terrena al sonno. Acusico Medio Levante, Anna Jencek, Franco Zaio, Mariano Deidda e Beppe Giampà hanno pubblicato lavori interamente dedicati a mettere in musica le liriche di Cesare Pavese, con l'intento di trasformarle in canzoni ma sono molti gli interpreti che hanno inserito nei propri dischi qualche testo dedicato o qualche poesia musicata o recitatata di Pavese: Milly, Leo Ferré, Gigliola Cinquetti, Claudio Lolli, Mario Mantovani, Stefano Palladini, Barbara Gabotto, Renato Dibì, Lalli, Nicola Sartori, Chantango, Giorgio Macellari, Margot, Rusò Sala, Rivera, Antonio Pignatiello. Altri hanno composto e inciso omaggi musicali a lui dedicati in forma jazz (Jean-François Jenny-Clark & Aldo Romano), progressive-rock (Stefano Testa), classica (Federico Gozzelino) e perfino rap (Marco Ongaro). E c'è stato chi, come il compianto Imanol l'ha interpretato in basco (tradotto da Xabier Lete) con l'accompagnamento di Paco Ibáñez.
La narrazione di “Un sapore di terra bagnata” inizia proprio dall'ultimo sfortunato amore di Pavese, quello per l’attrice americana Costance Dowling, conosciuta a Roma sul set di “Riso amaro” di Giuseppe De Santis, la donna che dopo la fine delle riprese partì per l'America promettendo invano un ritorno, mentre Cesare le scriveva: “La luna e i falò è già a Hollywood ad aspettarti. E' un buon libro e tu sei il miglior santo patrono che potesse avere. Ricordami nella vecchia New York. L'ho amata con tutto il cuore un tempo, quando non sapevo che c'eri tu ragazzina”. Il tumulto nel cuore, l'aspetto trasandato e gli occhi eternamente stupiti sotto il cappello sformato dei contadini nelle Langhe che alla domenica mattina aspettano Messa Grande, un mondo di vigne color ocra, fuori dal tempo, d'estate i falò e le feste di piazza, le ballate della campagna, la nuova musica di Duke Ellington e le Alpi lontane all'orizzonte. La vita che rallenta e gli occhi che si perdono tra i filari. Anche oggi è il silenzio che domina ogni cosa in mezzo a queste colline e alle loro curve illuminate da un sole che si mangia le ore. E' così questa terra, rossastra, segnata da una tragica, infausta ebbrezza gravitazionale verso il centro, è una delle terre più telluriche del mondo. E anche Cesare Pavese con le sue parole ha scavato e scavato, per tutta la sua vita, verso il fondo della terra, dentro il mito, alla ricerca di un impossibile luogo di sogno, di avventura, tra i Mari del Sud e le Langhe. A questo luogo oltre un confine e sotto la crosta della terra è indirizzata tutta la sua straziante poesia. “Non si brucia una candela da due parti. Nel mio caso l'ho bruciata da una parte sola e la cenere sono i libri che ho scritto”. E Leonard Cohen: “Poetry is just the evidence of your life. If your life is burning well, poetry is just the ash”.
Flavio Poltronieri
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