“Bastardüs” è il titolo del secondo album dei Tundra, formazione spagnola originaria di Logroño. La band è formata da quattro musicisti e polistrumentisti, che iniettano in una struttura narrativa molto variabile, sonorità e approcci folk-rock, ethnic-jazz e, in generale, ispirati ad alcuni esiti delle tradizioni musicali e espressive della Spagna continentale e settentrionale. Specifico questo riferimento “geo-culturale” perché, anche a un primo ascolto, ci si scontra subito con una musicalità lontana dallo stereotipo spagnolo, ma più legata a un evidente sostrato celtico. A un insieme di suoni e orizzonti, cioè, che, pur pienamente svincolato da un percorso di riproposta e di revival (sia estetico che contenutistico), richiama un nucleo evidentemente presente, che conserva una fascinazione innegabile e, soprattutto, delle soluzioni compositive interessanti (“Road to heaven”). Questa variazione che determina i riferimenti più strutturali del gruppo trova una sua forma logica nella selezione degli strumenti. I quali definiscono una forma espressiva che, nel suo insieme, risulta spesso innovativa, sebbene, come detto, alcuni elementi siano riconducibili ad aree musicali grossomodo conosciute. Se guardiamo alla struttura dei brani, alla successione cioè delle parti di cui sono composti e alle modalità attraverso cui chi li esegue ne interpreta i diversi movimenti, ci accorgiamo che l’andamento melodico e ritmico è molto articolato. Questo nonostante la band faccia spesso riferimento ai brani tradizionali – di cui si evocano soltanto le forme – e attraverso questi riporti a galla una sorta di mistica musicale, che strumenti come la gaita, la nyckelharpa e la cornamusa riescono a ricondurre a una dimensione straniante e, infondo, inafferrabile. In molti casi gli strumenti tradizionali (tra cui si annovera anche la säckpipa, una variante svedese della cornamusa) sono inglobati in un profilo sonoro più composito, in cui hanno un ruolo centrale strumenti “di passaggio” (più trasversali), come la mandola e il violino, insieme a chitarra elettrica, sax soprano e batteria. Si può immaginare il risultato: un suono inafferrabile, pieno di elementi apparentemente contrastanti, in cui si percepisce una timbrica quasi astratta, ma soprattutto si riesce a comprendere un orizzonte musicale estremamente variopinto. Insomma un’esplosione, un incastro indeterminato, in cui però ogni cosa si posiziona dove deve stare, per rimarcare l’eccezionalità di quell’ambiente sonoro. E di quella precisa prospettiva musicale che, in questo modo, diviene estremamente coerente e piacevolmente sperimentale. A questo proposito vale la pena spingersi anche più oltre: lo sperimentalismo e la tensione che determinano le strutture e le combinazioni tra gli strumenti si affievoliscono quando la band sposta il suo baricentro su un versante più contemporaneo, imprimendo ai brani (un esempio perfetto è “I just love you”) un andamento più pieno e rock (tanto per intenderci: un ritmo più marcato, una pienezza più cadenzata a scapito dell’aria che si percepisce in brani più profondi, come “Freedom never cries”, “Two lights” e “Johnny America”). In generale, comunque, l’album offre ottimi spunti di riflessione, che qui possiamo sintetizzare in un paradigma tanto importante quanto sottovalutato: comprendere il linguaggio della tradizione orale è necessario non tanto per riproporne delle possibili varianti (che inevitabilmente si intrecciano con tante retoriche e altrettanti fraintendimenti), quanto per ampliare la propria narrazione, per articolare una narrativa più incisiva (perché, in una prospettiva anche esclusivamente artistica, non tenere conto di come si esprime la musica in un’area “culturale” determinata?), per riconsiderare, oltre i limiti formali della contemporaneità, un linguaggio pieno e efficace.
Daniele Cestellini
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