Baloji – 137 Avenue Kaniama (Bella Union/Self, 2018)

Baloji é tornato e fa, come suo solito, le cose in grande stile. Già consacrato come il più brillante artista congo-belga di ultima generazione all’epoca di “Kinshasa Succursale” (Crammed discs, 2011), lo stregone Baloji ha varcato la soglia della britannica Bella Union, che gli ha dato carta bianca per la realizzazione del suo terzo album sulla lunga distanza, “137 Avenue Kaniama” (dopo il mini-album “64 Bits and Malachite”, 2015), un ulteriore salto di qualità nella definizione di un sound e di espedienti narrativi che il nostro Baloji ha costruito e architettato album dopo album, conquistandosi un profilo di fiammante troubadour post-moderno, un disco che ad Alain Mabanckou (poeta e scrittore congolese) è piaciuto definire col termine “worldbeat”. Ovvero, scrive Mabanckou, un distillato di atmosfere ritmiche che richiama l’apoteosi artistica degli anni ’70, quando gli artisti african-american si ispiravano all’Africa e viceversa. Il tutto condensato anche nel climax retroafrique, molto chic, dei suoi videoclip. Ma andiamo per ordine. “137 Avenue Kaniama” non è un indirizzo di fantasia ma dove abita la madre di Baloji ritrovata dopo venticinque anni. «Ho lasciato mia madre all’età di tre anni per venire a vivere in Belgio con mio padre, lei vive con una mia zia a Lubumbashi, la mia città d’origine in Congo, e non l’ho più vista fino a quando non mi sono deciso ad andarla a cercare. Ma non ho trovato subito quell’indirizzo, perciò ci ho scherzato su», lacerazione e frustrazione dovute alla brusca separazione “sublimate” (in senso burkiano) nei versi e nel rapping battente di “La derrière pluie/Inconnu à cette adresse”, esemplificativa della bravura di Baloji nell’incastrare introspezione e racconto, nell’incastonare ritmi tradizionali con beat ultramoderni, della sua tensione metanarrativa. Baloji mette al centro del suo processo creativo la (sua) resilienza, cui soggiace un’infanzia turbolenta (è anche finito in riformatorio), complicata dai problemi quotidiani di un’esistenza cresciuta in bilico tra culture diverse. “137 Avenue Kaniama” è un’opera kafkiana con quel senso di pedinamento di se stesso, eppure perennemente sospesa tra un approccio narrativo autobiografico e l’autofiction, con quella capacità di leggere con inquietudine nei propri stati d’animo, nei trapassi di sensibilità, nell’interloquire problematicamente con la realtà esterna. L’album è costruito su diversi piani narrativi (identità multipla e post-moderna, amore, intimità), Baloji è interessato a riflettere/rappresentare un’identità fluida, plurale, di nero europeo, nato in Congo e cresciuto in Belgio; non intende solamente “problematizzare” la condizione di “doubleness”, ma mostrare che sforzarsi di essere sia europeo che nero richiede alcune forme specifiche di doppia coscienza. Possiamo trovare elementi africani e anche dettagli etnologici o propriamente etnografici come nel magnifico videoclip “Peau de Chagrin/Blue de Nuit”, sul tema dell’amore non corrisposto, che lui stesso ha ideato, diretto, disegnato i costumi, e costruito la scenografia, un esempio di tradizione non-tradizionale, o di autenticità - in autentica, in cui recupera anche la voce androgina di una leggenda oscurata come Klody Ndongala che lo accompagna anche in “Bipolaire/Les Noirs” disseminato di riferimenti al romanzo di Dany Laferrièr, “Comme faire l’amour avec un nègre sans se fatiguer”, feroce condanna degli stereotipi coloniali. Gli anticorpi contro la depressione ci sono tutti, basta cliccare una traccia up-tempo e tirarsi su.


Grazia Rita Di Florio

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