Album raffinato e “regolato”, profondo e sognante, “Travels” ricalca con rigore l’ispirazione del batterista Giampaolo Scatozza. Sembra di ascoltare le esecuzioni dal vivo, tante sono le suggestioni che suscitano le undici tracce che si susseguono in modo equilibrato e, allo stesso tempo, sinuoso, dentro un’alternanza di timbri e intensità totalmente avvolgenti. La linea principale che emerge da questo denso discorso strumentale richiama un jazzismo libero da ogni impaccio formale, nel quadro del quale si alternano e sovrappongono numerosi strumenti e, soprattutto, si definiscono tutti gli spazi necessari a espandere al massimo scrittura e improvvisazione. La regolazione principale (non poteva essere altrimenti) aderisce al procedere della batteria che, in ogni brano, trascina tutti gli strumenti disegnando volumi e forme sempre differenti. Se nella maggior parte dell’album si riconosce – come si diceva – una linea di ispirazione evidentemente jazz, non mancano alcune aperture a una narrativa più sciolta, in cui i suoni appaiono più dilatati e le atmosfere generali richiamano un panorama forse più indefinito ed evocativo. È il caso di “Waitin’”, la quarta traccia delle undici in scaletta, che compare come una lunga sospensione dopo i primi brani dell’album, molto marcati sia sul piano ritmico che timbrico. A partire dalla batteria, “Waitin’” (che come molti altri pezzi va oltre i sei minuti) si apre su un nuovo piano narrativo, in cui ogni elemento sembra ampliarsi dentro uno spazio più profondo e indeterminato. Uno spazio in cui si definisce una riflessione più ponderata. Va anche detto – e questo è un elemento di primo piano – che il panorama sonoro è perfettamente coerente con quello degli altri brani, grazie agli strumenti che si muovono con sicurezza e fermezza. Ma ognuno (soprattutto flicorno e pianoforte) scivolano fluidi in un dialogo pacato e tenace, addolcito dal sostegno morbido di una batteria lenta e riflessiva. Le varie parti del brano si incrociano con precisione, definendo delle variazioni di intensità straordinarie, che coincidono con l’alternanza di tastiere e fiati. Scatozza non si fa sfuggire poi una virata interessante nell’elettronica, mettendo le mani su alcuni loop reiterati con armonia dentro alcuni brani, che assumono una rilevanza centrale in tutta la scaletta. Il primo è “I walk the line” e fin dall’incipit suggerisce un’apertura straniante a un racconto più astratto: l’incedere è sottratto alla coerenza ritmica della maggior parte dei brani e aderisce a un’idea strutturale più ipnotica e ciclica. Vi sono anche interventi vocali, che interpretano le parole scritte da Nina Pedersen, incentrate soprattutto sulla reiterazione del titolo (che racchiude in sé uno spazio ricco di evocazioni). L’altro brano è “Waiting for you” (anche questo cantato), più acido e meno astratto, imbrigliato in una interessante divergenza tra la base diritta della batteria e gli interventi cadenzati delle tastiere. Con il brano “A love song” si attraversa un nuovo solco e si lascia scorrere l’immaginazione attraverso melodie molto sinuose e avvolgenti. Anche qui il flicorno (suonato da Giovanni Di Cosimo) determina la densità del brano, che precede, in alternanza e in più tratti, con un elegante sostegno di tastiere, pianoforte e batteria. In termini generali l’album è molto piacevole, perché non ripete mai le stesse soluzioni. Può sembrare superfluo sottolineare questo aspetto, ma ci si accorgerà ascoltandolo che la bravura di Scatozza e dei suoi musicisti sta proprio qui. Certo vi è la scrittura, la capacità di selezionare elementi e idee raffinate e certamente originali. Ma vi è anche la capacità di trovare la giusta posizione agli strumenti (sax, chitarre, basso, tabla, tastiere, elettronica), i quali sono molti e sono coordinati con maestria. Ognuno ha il suo spazio necessario. Nessuno si ripete uguale a sé stesso e nelle varie forme che assumono i brani (anch’essi sono molti e straordinariamente lunghi) riescono a identificarne in modo chiaro lo spirito, trattenendo ogni reiterazione e partecipando con comprensione all’armonia generale, alla visione d’insieme.
Daniele Cestellini
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Suoni Jazz