Saz’iso – At Least Wave Your Handkerchief At Me: The Joys and Sorrows of Southern Albanian Song (Glitterbeat, 2017)

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Prodotto da sua eccellenza Joe Boyd, con la collaborazione dell’albanese Edit Pula e della berlinese Andrea Goertler (che tra l’altro ha da poco sposato proprio il celebre produttore americano-britannico), registrato da Jerry Boys, tecnico del suono di caratura internazionale (ha prestato la sua opera per Buena Vista Social Club, Ali Farka Touré e Orchestra Baobab), “At Least Wave Your Handkerchief At Me” raduna alcuni tra i più dotati cantanti e strumentisti albanesi, selezionati proprio per questa session incentrata sul magnifico canto a più parti delle regioni meridionali dell’Albania. In realtà, tutto ha avuto inizio anni prima con la collaborazione tra Boyd, non nuovo ad esplorazioni balcaniche, e l’etnomusicologa e giornalista BBC Lucy Duràn per un programma radiofonico e per un viaggio sul campo nel paese delle aquile al festival di Gjirokastër. Inevitabile il coup de cœur per le polifonie Tosk, che ha spinto Boyd e compagni a concepire una registrazione di questa grande tradizione musicale delle montagne del sud, che ha una sua storia antica e una propria evoluzione di suono e di stile, senza intervenire con innesti contemporanei o fusioni forzate dall’esterno. Una riuscita campagna di crowdfunding di Kickstarter ha portato ad assemblare il gruppo di virtuosi, che hanno registrato l’album nel 2016 in tre giorni, tutto dal vivo e senza sovra-incisioni, all’Accademia di Cinema e Multimedia Marubi di Tirana, la cui sala di proiezione è stata trasformata in uno studio di registrazione. 

Saz’iso, il nome del super-gruppo, combina il termine “saze”, riferito a ensemble dei contesti urbani meridionali del paese adriatico, esito di sviluppi musicali al volgere del XX secolo, nei quali le voci sono accompagnate da strumenti (liuto, violino, clarinetto e flauto), e la parola “iso” che, nella disposizione strutturale della polifonia dell’Albania meridionale, è il bordone. Questo suono pedale, a uno o più voci, assume un ruolo fondamentale nel conferire profondità al canto, il cui impianto, che prevede almeno due linee melodiche vocali, si può presentare in stili e intrecci diversi, con impasti sonori spesso dissonanti. Le due vocalist di Përmet, Donika Pecallari e Adrianna Thanou, possiedono qualità vocali diverse: la prima è dotata di un timbro potente e agile, la seconda ha una voce calda e sottile. Da stelle delle competizioni e dei festival locali, le due cantanti lasciarono il loro Paese negli anni Novanta del secolo scorso, tempi turbolenti di instabilità sociale e politica e di povertà che seguirono il collasso del regime comunista. Emigrate in Grecia, Donika mantenne tenacemente il rapporto con la musica, partecipando a festival in patria, mentre Adrianna solo recentemente ha ripreso a cantare. Le due voci femminili si integrano a meraviglia anche con la voce maschile di Robert Tralo, prete ortodosso oltre che dotato cantante. 
A completare l’ottetto, oltre ai tre vocalist ci sono rinomati strumentisti, alcuni membri della diaspora albanese, a cominciare dal violinista Aurel Qirjo, originario di Korçë ma londinese di residenza. Il clarinettista Telando Feto è molto richiesto per la qualità del suo fraseggio. Il veterano Agron Murat, liutista e costruttore di strumenti, è stato un membro del leggendario ensemble Lulushi, così come Agron Nasi che suona il darje, un tamburo a cornice. Infine, c’è Pëllumb Meta, flautista e virtuoso degli aerofoni, componente dell’Ensemble Tirana. Il disco è aperto da un canto narrativo introdotto da una sequenza strumentale clarinetto-violino, con tamburi a cornice e liuto che assumono il ruolo del bordone; le voci fanno il loro ingresso e l’ingresso delle voci che si sovrappongono nello struggente racconto di “Tana”, dove un pastore, che prima di essere ucciso da due ladri, ha esaudito può esaudire il suo desiderio di suonare il suo flauto per l’ultima volta affinché la sua beneamata possa udirlo dall’altra parte della valle, con ciò mettendola venendo così al corrente di quanto sta accadendo. Gli strumentali “Kaba me violinë” e “Kaba me klarinetë” ci fanno entrare in un'altra potente espressione tradizionale, imperniata su frasi strumentali lente e libere sul piano metrico nella prima parte che si evolvono, poi, in una sezione di danza veloce.
Da un verso di “Penxherenë e zotrisë sate” deriva il titolo dell’album: violino e liuto sostengono magistrali combinazioni armoniche delle voci in questa lirica d’amore della regione di Përmet, che è uno dei vertici del disco. “Valle Postenançe”, “Valle Minushi” e “Valle e Osman Takës” sono delle danze (questo è il significato del termine “valle”) che oltre alla funzione di accompagnamento coreutico sono entrate nel repertorio concertistico degli ensemble saze. La prima è una danza femminile, la seconda è imperniata su una melodia tradizionale delle minoranze greche dell’Albania, l’ultima proviene dalla Çamëria, area che in gran parte ricade all’interno dei confini della Grecia. Il titolo fa riferimento al patriota ottocentesco che imprigionato dall’esercito ottomano a Ioannina ottenne salva la vita (almeno in quel momento, perché poi fu ricatturato e ucciso) proprio per la sua abilità di danzatore. Un episodio strumentale che dà la misura della maestria dei musicisti è “Avaz”, che si configura come motivo vocale o linea melodica strumentale: l’ensemble esegue una libera improvvisazione per flauto, liuto, percussione, violino e clarinetto che si scambiano i ruoli solisti e di pedale. Oltre a tribolazioni e dolori ci sono anche le gioie di una festa di matrimonio, che a Përmet sono un affare che dura molti giorni, coma si narra in “Trëndafili fletë-fletë”. 
Invece “Goca e Berberit” celebra la rara bellezza della rampolla di un barbiere; qui siamo di fronte ad un brano di tale complessa articolazione melodica e di non facile esecuzione: un altro brano top dell’album. Non poteva mancare un brano sulla pluricentenaria strada dell’emigrazione (“kurbet”): “Nënockë” è un lamento dalla regione di Korçë, in cui è immaginato un dialogo tra una madre e una figlia, con quest’ultima disperata per la separazione e l’attesa di nove anni (un numero emblematico nella tradizione albanese) di suo marito che è in terre lontane. Il canto è eseguito in forma di polivocalità a due parti. Di separazione parla anche “Fole moj mike një fjalë”, in cui ci si scaglia contro la stessa nave che è stata causa del distacco degli amati, mentre “Bëje dru në përcëllime” è una lirica d’amore. Invece, in “O bandill mustaqezi”, una moglie si lamenta del bel marito che spende al sua vita a bere raki. Finale epico con “Doli Laceja nga stani”, altra superlativa interpretazione di un canto della regione di Leskovik, che ha come protagonista la lotta contro gli Ottomani e che narra del coraggio di Lace Backa e di suo fratello in battaglia. È indubbio che “At Least Wave Your Handkerchief At Me: The Joys and Sorrows of Southern Albanian Song” sia uno tra i dei migliori dischi dell’anno. 


Ciro De Rosa

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