Nel 2018, compirà novant’anni ed è stato, per alcuni decenni, voce del “cuncordu di Fonni” (NU). Ha sempre cantato con gioia, per divertimento e per diffondere la cultura della propria comunità, immersa nella Barbagia di Ollolai. Con spontanea eloquenza, abbiamo dialogato di “humanitas musicale sarda”, i cui esiti, di seguito, sono stati organicamente sintetizzati, lasciando da parte l’armamentario delle sovrastrutture teoriche, facendo esprimere Pietro (noto Pietrino) Puddu in prima persona, nel rispetto del suo modo schietto e diretto di narrare.
Pietrino Puddu e il cantare “a cuncordu”
Io sono nato a Mamoiada, ma parlo fonnese, perché sono venuto a vivere qui quando ero piccolissimo. Mio padre costruiva i carri (…). La prima volta che ho sentito cantare a cuncordu ero nel “cilleri” (bar). Ero giovane, ci andavo ma non bevevo, ascoltavo e poi me ne andavo. I tipici canti di Fonni “a cuncordu” sono: “boh’ ’e notte” e i balli, “torrau”, “’e trese”, “’e duos” e “sartiu” (questi ultimi due sono la stessa cosa). Spesso si finiva di cantare con “sos mutos”(…). Nessuno mi ha insegnato. La prima volta che ho cantato “a cuncordu” ero un ragazzino, non avevo più di sedici anni, gli anziani mi misero in mezzo (nel gruppo dei cantori), hanno visto che me la cavavo e così ho iniziato. Ora questi cantori non ci sono più. Salvatore Mureddu, detto “Toscanu”, era “vohe”; Pietro Demartis, “mesuhoe”; Giuseppe Mele, “hontra”; Francesco Demartis, fratello di Pietro, “bassu” (…). Alcuni compaesani mi avevano detto che, talvolta, anche mio padre cantava “a cuncordu”, ma io non lo ho mai sentito cantare. Purtroppo, quando è deceduto avevo solo sette anni. Lo ricordo, invece, lavorare sull’incudine, sistemando “sos criccos”, le ruote del carro. Io cantavo anche perché mia mamma (Anna Pirisi) cantava “a battorina”. Al tempo non avevamo niente, si campava solo del suo lavoro, io sono poi divenuto capo famiglia, per cui ho avuto l’esonero militare. Con mamma, andavamo con l’asinello a Desulo a prendere le castagne, poi le vendevamo a Oliena, Orgosolo, Dorgali, oppure facevamo uno scambio merce. Stavamo via diversi giorni e quando si vendeva si tornava in paese, quando non si vendeva si lasciava ad amici (…).
A me piaceva cantare, “ammurrungiande” (“mugugnando”, un modo per dire che cantava a bassa voce, per sé). Come dicono a Fonni, “a murrungiu a murrungiu ingrassa’ su procu”, (mugugnando, mugugnando ingrassa il porco). Ho imparato, poco a poco, cantando (…). Non servono insegnanti come nelle scuole, bisogna saper ascoltare chi sa cantare, poi si prova, se subito si riesce a trasmettere il canto, bene, altrimenti, piano piano, s’impara. Adesso anche gli americani e i giapponesi cantano “a cuncordu” o, come dicono in altri paesi, “a tenore”. In paese, chi aveva talento e sapeva cantare, poteva cantare. Un cantore bravo lo ammirano tutti. Dicevano, ha “unu bellu traggiu, pare’ una sirena” (ha un bel modo di cantare, pare una sirena), per dire che era un bravo cantore. Certo, provano in tanti a cantare e molti non riescono, ma se uno si sente e continua a provare, secondo me ce la può fare (...). La prima volta che ho cantato alla festa de “sos Martires” c’era il circo equestre. Mi ha chiamato Giuseppe Mele (detto “tiu Gatto”), “hontra”. A “su bassu” cantava “tiu” Sebastiano Francione e “tiu” Pietro Martis, come “mesuhoe”. Salvatore Mele, “tiu Macumele”, quella volta mancava e l’ho sostituito. Io ero a “su cilleri” e mi hanno chiamato a cantare e quello che potevo fare l’ho fatto, ero un ragazzino. Dei cantori anziani sono rimasto solo io. Cantavamo per divertirci e stare insieme. Cantavamo per i nostri paesani. Se c’era una festa, il ballo e il canto non mancavano mai. Ora le canto “a tonu su sartiu, Rondine bella puzzone”, è molto ritmato, piaceva alle ragazze, alcune non ballavano, facevano solo le spettatrici (…) anche io non ho mai ballato, mi piaceva cantare e sono rimasto così, ma i passi del ballo li conoscevo. Il più bravo ballerino? Ce ne sono stati tanti, ma forse il più bravo era Mureddu Salvatore, detto “Ciallora”, il pubblico era puntato su di lui, perché stava “arritzu cumente una handela” (diritto come una candela). Anche di donne brave ce ne erano tante (…).
Quando ero ragazzo non c’erano gruppi organizzati. Si cantava misti, le voci si scambiavano, chi voleva prendeva parte, poi, quando si sono formati i gruppi folclorici, se c’era una festa o qualche concerto, allora sì, le prove erano separate, ma quando andavamo a cantare nei paesi a volte eravamo di nuovo mischiati (...). Apprezzavano la mia voce, perché potevo cantare sia a “vohe ’e notte” sia “a ballu”. Abbiamo cantato in tanti paesi della Sardegna, ma anche in continente come a Torino, Genova, Firenze (…) e ci hanno invitato anche all’estero (...).
Con il Gruppo abbiamo iniziato nel 1969, ma cantavamo già da molto tempo. Nel 1958, ci avevano chiamato alla RAI di Cagliari, dove avevo cantato con Raffaele Cugusi, detto “Peccioi”, “bassu”; Giacomo Piras, “mesuvohe”; Cosimo Meloni, “hontra”. A Cagliari eravamo andati su invito di Angelino Piras, un compaesano veterinario. Avevano organizzato una festa in un campo sportivo, nel quale si svolgeva anche un incontro di pugilato. Finito l’incontro dovevamo cantare noi, abbiamo cantato tutti i nostri canti, finendo con “sos mutos”(…). A Cagliari siamo tornati a cantare nel 1978 (ma con un altro “cuncordu”). Nel 1961, abbiamo cantato al “Nuraghe d’oro” (…). Nel 1962, abbiamo cantato a premio a Santa Croce. C’erano otto o dieci gruppi “a tenore” che si sfidavano, chi cantava con il costume prendeva cinque punti in più (…).. In su “cilleri”, durante le serate si giocava a “sa murra” o a carte. La sera non potevamo fermarci, o meglio, dipendeva dalle giornate, in quelle di festa ci fermavamo di più, ma normalmente si andava a casa per cena. Dopo cena si usciva quando c’era la festa. Finivamo di lavorare quando scendeva la luce. Di solito, a “su cilleri” si andava prima di mangiare, poi andavamo a dormire perché ci alzavamo presto per lavorare. Il nostro era cibo semplice. La carne, da piccolo, si mangiava solo in poche occasioni, come alle feste dei Martiri e a San Giovanni (...). C’erano molti pastori a Fonni, ora sono molti meno, allora si mungeva a mano ora quasi tutto con la mungitrice e si andava a cavallo o con l’asinello, ma il pastore doveva stare sempre attento, perché a volte “rubavano” anche lui, nel senso che lo legavano e gli prendevano tutto e restava senza niente, i barracelli poi cercavano, a volte trovavano, altre volte no (...).
Noi del “cuncordu” non eravamo pastori. I pastori andavano “in viazzu a isverrare a hampidanu” (in viaggio a svernare in Campidano, per la transumanza). Mi hanno raccontato che talvolta durante il tragitto cantavano “a vohe ’e notte” e il bestiame stava ad ascoltare: proprio così, quando i pastori cantavano gli animali si fermavano ad ascoltare (…). Noi abbiamo la nostra tradizione di canto che tanti hanno provato a imitare, ma senza riuscirci, noi abbiamo tenuto sempre la nostra tradizione e solo quella. “Su cuncordu” c’era anche quando venivano invitati i poeti alle feste, però in questo caso chiamavano solo tre cantori per accompagnarli. A organizzare c’erano i “soci” di San Giovanni, Sant’Antonio, San Cristoforo, poi c’era il priorato della Madonna e “sos Martires”. Facevano venire i cantori a poesia (in logudorese), in passato alcuni poeti locali cantavano anche in fonnese. Mi hanno detto di un certo Maloccu e di “Vrammentu”, Matteo Mureddu , ma io non li ho conosciuti. Nel mio “cuncordu” c’erano Bernardino Curreli, detto “Venale”, “mesuhoe”; Mureddu Michele, detto “Sonaggia”, “hontra”; Raffaele Cugusi, “su bassu”, detto “Peccioi”. Con loro ho cantato per tanti anni.
Nel 1969, siamo stati invitati alla festa del Redentore, a Nuoro, e abbiamo subito preso il primo premio (…), poi abbiamo ricevuto l’invito nel Friuli. Pensi, signor Paolo, che noi, nel 1972, siamo andati al Festival di Gorizia per cantare “a cuncordu”. Il presidente della Pro Loco era il prof Antonio Mereu, preside scolastico. Eravamo “cinque per tre” per il ballo (a Fonni si balla a gruppi di tre, due donne e, in mezzo, l’uomo), più “su sonadore”, più gli accompagnatori, insomma eravamo circa in venticinque. Giorgio Pio suonava l’organetto con i tasti di legno, poi ha iniziato a usare anche quello di madreperla. C’era una gara a punti che venivano dati dalla giuria. A noi diedero centodieci punti, ma ce ne tolsero diversi, perché l’organetto usato non era quello con i tasti di legno. Per questa ragione, a Gorizia, non abbiamo preso il premio che meritavamo, il punteggio era alto per “su cuncordu” e per il ballo, ma ci hanno cambiato il punteggio perché volevano l’organetto con i tasti di legno (e non mi è sembrato corretto, ma è andata così).
Il mio gruppo era quello della “Pro Loco”, detto anche “su gruppu de Petrinu Puddu, su zegu”, perché non vedo più a seguito di un incidente sul lavoro avuto in Svizzera nel 1964 (...). Facevamo le prove con il gruppo del ballo nella sala del comune o nel “cilleri”. La nostra prima incisione l’abbiamo fatta a casa di “Peccioi”, con un tale che cantava a chitarra e con un altro di Quartu (…). Comunque non sono stato contento di come abbiamo registrato, non mi è piaciuto per niente il risultato finale e, infatti, abbiamo dovuto discutere. Chi registrava ha voluto fare di testa sua, prima ci doveva sentire e chiedere se per noi andava bene, altrimenti si doveva fare un’altra registrazione, fino a che non eravamo contenti tutti. Comunque, è andata così. In altre occasioni, abbiamo fatto altre registrazioni nelle case di conoscenti, chi aveva un registratore ci registrava. Il banditore del paese aveva la linea e trasmetteva messaggi, a volte metteva su i nostri canti che si sentivano per tutta Fonni. C’è anche un cd nel quale canto con “sos Battor Moros” (un “cuncordu” di Fonni, attivo sin dalla fine degli anni Settanta) alcuni canti religiosi, come “sos coccios”.
Il gruppo dell’Enal lo aveva fatto Michele Cadau, “Curista” di soprannome. Aveva il bar dell’ “Enal” e lì cantava il gruppo di Cristoforo Bottaru (…). Con lui cantava anche un mio caro fratello, Michele, “vohe” o “mesuhoe”. A Fonni c’erano anche altri che cantavano “a cuncordu”, solo per divertimento. Non avevano un gruppo (…), ad esempio, erano bravi i cantori della famiglia Castia o della famiglia Mulas.
Carnevale, serenate e feste religiose
A carnevale c’erano delle sale nelle quali si andava mascherati e si cantava. “Su cuncordu” si metteva in mezzo alla sala e in giro ballavano. All’epoca non c’era tanto altro svago, non usavamo la radio. La sala veniva di solito affittata e fuori c’era il botteghino, dove, oltre a pagare l’ingresso, vendevano arance e caramelle. C’era tutto un rituale per chiedere di ballare. Eravamo mascherati e chiedevamo il nome alla donna, se lo diceva e alzava un poco la facciola (la maschera) per mostrarsi, allora si poteva andare al botteghino e in sala a ballare. C’erano diverse sale, la più importante era quella del dopolavoro (adesso c’è il Comune), un luogo dove si giocava anche a carte e alla morra. Di maschere ce ne erano tante, e si viaggiava a gruppi. Un gruppo si fermava poi andava via, magari quando ne arrivava un altro. Un’altra sala era quella di Giuseppeddu Carta, faceva il bidello e apparteneva alla famiglia di “tiu Michelli” Carta. Durante il fascismo il canto era proibito, ma lo si faceva lo stesso, cantavano tranquilli, non rubavano niente a nessuno (...). Nelle sale si pagava con monetine, tres’ arreales (tre reali), “unu soddu” (un soldo), denari allora ce ne erano pochi. Come cantori, a volte, ci facevano entrare senza neppure pagare. Ci si divertiva a carnevale, c’erano comiche che ora non ci sono più. Poi c’era il circo equestre che veniva per tre-quattro giorni per la nostra festa, poi si spostava e andava in altri paesi. Il circo arrivava anche per altre feste, a volte a Santa Croce altre volte a San Giovanni Battista o ai Martiri.
Inoltre, “su cuncordu” cantava alle signorine “sa serenada”. Se c’era una ragazza che piaceva, ci fermavamo vicino alla finestra e cantavamo “a mutos” o “a battorina”. I genitori spesso gradivano, ma a seconda di come si cantava potevano arrabbiarsi. Se si cantava “a malu”, non gradivano. In passato, ad esempio, questo tipo di canto si faceva quando qualcuna aveva un figlio prima di sposarsi, ma adesso queste cose non succedono più. In passato, nelle case si entrava e ci invitavano e si giocava. Un canto per le serenate poteva durare dieci, quindici minuti, poi ci si spostava cantando “a mutos”, “a cuncordu” o con l’organetto a bocca. Tra quelli più anziani suonavano l’organetto Giovanni Mureddu, “tiu Belluritta”, Raffaelle Balloi, detto “Orredda” e Giovanneddu Marceddu, “tiu Pannargeddu”. Balloi suonava talvolta anche la fisarmonica, strumento che suonava soprattutto Giuanneddu Mulas, detto “Catholu”. Con l’organetto a mano, tiu “Belluritta” era il più richiesto. A “sos Martires”, Mulas (“Catholu”) suonava la fisarmonica, anche suo padre cantava e suonava in chiesa, ma io non lo ho conosciuto (...).
Nelle strade sceglievamo i punti dove c’erano belle ragazze, ma per cantare “a cuncordu” o per suonare con l’armonica bocca a noi andava bene qualunque punto della strada. A carnevale, i gruppi venivano accompagnati anche dall’organetto antico, che aveva i tasti di legno. Nel periodo di carnevale non si ballava sempre, solo il sabato, la domenica e il mercoledì, sempre dopo cena. Nei giorni di carnevale, si ballava anche di giorno e si andava avanti finché c’era gente, con noi che cantavamo in mezzo alla sala e gli altri che ballavano intorno, secondo “sa moda” tipica di Fonni (…).
Cenni riferiti a sposalizi, messe, confraternite e al canto delle donne
Le feste per gli sposalizi, in passato, si facevano solo in casa e il divertimento era con amici che cantavano “a battorina”, “a mutos” o in poesia, a volte c’era l’organetto se invitato. Erano sposalizi che duravano giorni. Il mangiare si preparava giorni prima e giorni dopo: dolci, (come amaretti “pistoccos, marigosos, sebadas, cullurgiones), artizza, petha arrustu o a buddhiu” (salsiccia, carne arrosto o bollita), dipendeva dalle disponibilità.
Alla domenica, dopo la messa, non si ballava. Si usciva a volte in piazza Italia dove c’è il tabacchino, io vivevo lì vicino. Gli amici mi chiedevano: - andiamo a bere? Io rispondevo, “no vado in chiesa” e … portavo anche loro, ma usciti si andava a bere e a volte si cantava pure. A volte, si facevano anche balli tra soli uomini. Nel canto il vino aiuta, se bevuto nelle giuste quantità, ma se in eccesso disturba più che aiutare (…).
Le confraternite ci sono anche adesso, i confratelli escono a San Giovanni, a Santa Croce, al Monte, un tempo cantavano “sos uffizios”, ma io non li ho conosciuti, ne ho sentito solo parlare. Durante “sa ’hida santa” (la Settimana santa), “sos cantadores” cantavano in processione, si fermavano nei posti dove c’è la Croce (...). Molto non posso dire su loro, se non quello che ho sentito dire da altri. Io so cantare alla nostra maniera su “Babu nostru, s’Ave Maria, sos coccios, su Pipieddu e Vivat Maria”, ma quest’ultimo è un canto più recente. Nel 2011, mi hanno chiamato per registrare un disco con questi canti, insieme a “sos Battor Moros” e altri cori. In passato, “sos coccios” cantavano anche le donne, nelle funzioni loro stavano da una parte, dall’altra gli uomini, si alternavano nel canto; cantano ancora le donne in coro e sono apprezzate.
Le donne, a Fonni, in campagna, cantavano “a battorina” e, soprattutto, “a mutos”, quando si falciava si cantava, a volte si dormiva in campagna, dentro alla capanna, detta “su barracu” o “su pinnetu”. Alla sera si cantava e si accendeva il fuoco. Si mangiava e si cantava dove capitava. Il letto era “s’arrapazzola”, il giaciglio, fatto di “liste” di legno e frasche (...). Io non ero pastore, non avevo pecore e animali. Di solito, alle tosature non andavo, però se mi chiamavano partecipavo e aiutavo pure, magari a legare le gambe prima della tosatura. Le donne non suonavano in “su tusorgiu” (durante la tosatura), ma in casa propria. Giovannina Mulas era molto brava a suonare “s’organittu a buha” (a bocca), ma anche altre donne suonavano (…).
Conoscenze da non dimenticare
“Tiu Pietrinu” è carico di energia:« Ho molto da raccontare della mia vita, dei miei ricordi, del mio paese (…)». La moglie - signora Grazia Murroccu - annuisce.
Nei nostri saggi, tanto altro scriveremo sulla memoria musicale di Fonni ma, al momento, ci siamo limitati a rendere sincero omaggio a Pietrino Puddu e alla sua humanitas nel canto polivocale. Come etnomusicologi, lo ammiriamo e proviamo gratitudine per il suo decennale operato che, nel 2018, sarebbe importante valorizzare con una grande festa sarda in suo onore, nella quale tiu Petrinu non mancherebbe di cantare nonostante la ragguardevole età, con il consueto passionale impegno per tenere alto il livello del “cuncordu” nel vivo della propria comunità.
Paolo Mercurio
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Contributi di approfondimento
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