Con la seconda edizione del Festival delle Ciaramelle - che si è svolta ad Amatrice dal 4 al 6 agosto - si è chiuso un ciclo importante, che ha visto collaborare soggetti diversi in un ambito certamente complesso. Da un lato per le condizioni in cui versa il territorio di Amatrice e dall’altro per le difficoltà oggettive che, sul piano organizzativo, questo comporta. Provate a immaginare di non avere a disposizione lo spazio per un concerto o per una conferenza e capirete quanto si sia dovuto lavorare per configurarne di nuovi, immaginare la possibilità che un prato, una radura, una porzione in piano lungo la strada, possano divenire luoghi di accoglienza, dove cucinare, raccogliere persone, accogliere musicisti, suonare, cantare, ballare. Il livello di impegno dell’organizzazione ha richiesto una dedizione certamente straordinaria, proprio perché non si è dovuto solo riflettere e coordinare gli aspetti artistici o ciò che comunemente si intende per organizzazione e logistica. Ma sopratutto - come dicevo - immaginare nuovi spazi, renderli fruibili e funzionali alle attività di un festival che è divenuto in brevissimo tempo uno dei punti di riferimento dell’area.
Un nuovo momento di condivisione, di cui partecipano gli abitanti del luogo - e in particolare tanti giovani riuniti in associazioni che lavorano per il territorio, le associazioni locali di supporto del territorio - i suonatori e i ballerini tradizionali, gli studiosi e i tanti artisti che, sopratutto domenica si sono riuniti per chiudere come meglio non si poteva la rassegna curata da Giancarlo Palombini, Blogfoolk e l’associazione For.Mu.S. Direi addirittura che il concerto finale - che, come abbiamo anticipato nelle scorse settimane, ha visto la partecipazione di numerosi artisti - ha rappresentato uno dei modi migliori per celebrare l’idea di un festival che, attraverso la musica, può radunare persone e sottolineare l’importanza degli elementi culturali di un’area, indipendentemente dalle condizioni in cui versano le sue strutture e le sue città. Gli artisti che hanno partecipato ci hanno fatto comprendere sopratutto questo e credo che, in termini generali, possa bastare a determinare il successo dell’iniziativa. Abbiamo visto persone ballare e cantare (come tutti si sarebbero auspicati), firmare autografi, richiedere dediche e bis, ma abbiamo anche visto persone tagliare erbacce, montare e smontare stand e palchi in luoghi apparentemente non adatti e mai utilizzati per questi tipi di
iniziative, allestire bagni chimici. Tutto per creare la cornice adatta ad accogliere il festival e, con esso, la gente e gli artisti che vi hanno partecipato. La giornata di domenica si è svolta senza pausa dalla mattina alla sera, iniziando con una passeggiata musicale nei sentieri montani intorno ad Amatrice, proseguendo nel luogo dei concerti con un pranzo e la successione dei concerti a partire dal primo pomeriggio. Come era previsto, i suonatori locali si sono esibiti fin dalle prime ore del pomeriggio, raccogliendo il pubblico intorno a piccoli cerchi di saltarello. Sul palco principale, allestito in un lato della radura all’ombra di una grande quercia, gli artisti hanno iniziato a suonare intorno alle quattro, intrattenendo il pubblico fino al tardo pomeriggio. Se l’ospite principale e probabilmente il più atteso era Daniele Sepe, che si è esibito per ultimo, gli altri nomi in cartellone hanno saputo egregiamente intrattenere e coinvolgere, portando ad Amatrice uno spettro di musiche ampio e differenziato: dalle vocalità locali di Susanna Buffa e Stefania Placidi (che hanno aperto la kermesse con brani straordinari e che hanno posto le condizioni migliori per l’avvicendamento di un programma lungo quanto differenziato), ai riflessi medievali e celtici del Cantico Trio (che poggiava sulla straordinaria vocalità di Raffaello Simeoni, così come sui pipes di Massimo Giuntini, e sulle
note stranianti dei flauti, della zampogna e della nichelarpa suonati da Goffredo Degli Esposti e Gabriele Russo), dal cantautorato in dialetto, chitarra acustica e violino di Lara Molino alle tradizioni musicali abruzzesi de Il Passagallo (che si è esibito in quartetto con organetto, flauti, chitarre e percussioni). Tutto è confluito fluentemente in un pomeriggio ricco di suggestioni, in cui i suoni di quei luoghi hanno dialogato con le interpretazioni di artisti che, a partire da espressioni diverse, hanno proposto un sunto dei loro percorsi, delle loro visioni. Così come tutto aveva avuto un ottimo prologo nel giorno della tavola rotonda “Arza li pedi che la terra balla. Una riflessione sull’immateriale al tempo del terremoto”, a cui hanno partecipato Sergio Bonanzinga, Antonello Ricci, Placida Stato e Domenico Staiti. E tutto si è svolto nella piena condivisione del luogo e dei principi del festival, con scambio di opinioni, battute, confronti tra gli artisti, confronti tra questi e le persone intervenute, prove degli strumenti (liuti, zampogne, ciaramelle, nichelarpa, flauti, chitarre battenti, tamburelli), in un tempo pregno di suggestioni, lungo e estremamente piacevole. Ognuno ha avuto il suo spazio, così come ognuno ha avuto la sua musica: quella che si può chiamare una maratona musicale, che si è svolta tra i monti, e ha abbondato di riferimenti non solo musicali, ma anche culturali.
Per riconoscere l’atmosfera che ha pervaso l’evento basterebbe scorrere i numerosi documenti apparsi sul web, che testimoniano la compresenza di tanti artisti e l’entusiasmo del pubblico intervenuto. Un pubblico eterogeneo - di “locali” e non - che ha avuto la possibilità di parlare con gli artisti e condividere la passione per le musiche proposte. Daniele Sepe ha chiuso il giro con uno spettacolo grandioso, pervaso dalla giornata passata ad Amatrice (è arrivato con la sua band nel primissimo pomeriggio) e perfettamente a suo agio nel contesto di un festival determinato sì dall’ottima organizzazione ma altresì dalle difficoltà oggettive in cui versa l’area. Ad ogni modo, il Capitone ha messo tutti d’accordo: la cricca dei “fratelli” era perfettamente sintonizzata e lo spettacolo ha rapito tutti sin dalle prime note. Il termine spettacolo in questo senso aderisce alla coerenza dei programmi musicali cui Sepe ha fatto riferimento durante il concerto. I due album, cioè, recentemente pubblicati, che trattano le gesta di una banda di marinai e che sono stati racchiusi sotto i due titoli “Capitan Capitone e i Fratelli della Costa” e “Capitan Capitone e i Parenti della Sposa”.
Niente da dire sulla struttura degli album: decisa, caleidoscopica, armoniosa, eclettica, coerente. Niente da dire sul modo in cui le storie del Capitone sono state presentate dal vivo: si tratta di una narrazione articolata attraverso interventi sempre diversi, sia musicali che non, con una giusta dose di analisi della contemporaneità e di certe dinamiche che la caratterizzano, e una necessaria quanto coinvolgente dose di ironia. Quest’ultima, in particolare, si configura dal vivo come un faro da seguire, un riferimento imprescindibile, alla luce del quale comprendere la scelta degli argomenti, la struttura musicale degli innumerevoli brani, i ruoli degli strumenti selezionati per lo spettacolo (chitarre, batteria, basso elettrico, tastiere e sassofono). E, a ben vedere, raccorda i punti di vista dei soggetti coinvolti in questo racconto epico e volutamente pragmatico, tirando dentro la musica sudamericana, quella napoletana (nelle sfumature più diffuse e nelle sperimentazioni), la musica e la visione di un Sepe ispirato e a suo agio nella figura sfuggevole e bizzarra del Capitano di una ciurma di suonatori e cantanti.
Daniele Cestellini
Foto e video di Salvatore Esposito
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