Stessa musica, spiagge diverse. Il reggae va in scena sul lungomare marchigiano, a Marina Palmense, un lembo di sabbia e ghiaia incastonato tra Fermo e Porto San Giorgio, che da sei anni, a luglio, si trasforma in una vivace spiaggia dai ritmi caraibici. Certo, il mare non è cristallino (l’Adriatico è quello che è) e le spiagge non offrono panorami mozzafiato come le spiagge giamaicane, ma questo paesello di poche anime ha scorci e dintorni interessanti, e si é subito dimostrato ospitale nell’accogliere il pubblico intergenerazionale e i dreadlocks (i capelloni del reggae) che, a frotte, hanno popolato, anche questa VI edizione del Bababoom festival. Un’edizione che sarà ricordata anche per il solleone che non ha dato tregua, specie nel fine settimana, inducendo i visitatori del festival a rifugiarsi nella cosiddetta ‘beachyard’ al suon di sound system, attivi per tutta la giornata. Messo in piedi da un’associazione di ragazzi e ragazze col pallino del reggae, il Bababoom si é svolto dal 18 al 23 luglio, in un’atmosfera cordiale e rilassata, quasi familiare.
La denominazione, che potrà risultare curiosa o buffa ai non adepti, é un’espressione onomatopeica che prende senso dal brano omonimo dei The Jamaicans, un trio vocale dell’epoca rocksteady, e si può tradurre come un invito alla danza; una chicca tutta da suonare, anche se il Bababoom da quest’anno ha anche un proprio inno. Il nome denota una scelta di campo e uno stile di vita, ma il direttore artistico del festival, Andrea Borraccini, lo spiega molto semplicemente: «Volevo un nome facile da ricordare». Il festival ha luogo in un’area dismessa del Comune (Marina Palmense è una frazione di Fermo), in mezzo a canneti ed eucalipti, che ha concesso quest’area agli organizzatori in cambio di un’opera di bonifica e di manutenzione costante, dimostrandosi sensibile al ruolo dei festival quali organizzazioni cruciali per le politiche culturali della città (e spesso, quanto più i festival acquisiscono notorietà e prestigio, anche di regioni e stati). Il Bababoom é un piccolo festival, che deve competere con altri attrattori culturali e musicali più noti nel circuito reggae (come ad esempio il One Love Reggae Festival che si svolge a Latisana/Lignano dal 21 al 29 luglio), che si configurano come attori essenziali nel processo di classificazione (e de-classificazione) della produzione culturale e della cultura più in generale (un ruolo che negli anni ’90 fu dei centri sociali, veri motori propulsivi per la cultura dei sound system e del reggae in Italia e del primo reggae festival italiano, il Rototom Sunsplash). Un festival che negli anni diventa sempre più attrattivo svolgendo al contempo un ruolo importante quale spazio di costruzione di forme di cosmopolitismo e come piattaforma di comunicazione per la diffusione di idee e messaggi legati alla musica reggae.
Quest’anno il Bababoom ha presentato due novità degne di nota, la prima: il protrarsi della programmazione da cinque a sei giorni, la seconda: l’inaugurazione dell’Hipnotize festival dedicato alla cultura hip hop, una sorta di minifestival nel festival. L’avvio è stato dunque in rima per entrare nel pieno dell’evento a metà settimana che come da prototipo è costituito da un palco principale, un’area dancehall e un’area dub, dove hanno rimbombato i bassi di Abassi Hi Power International, il sound system (autocostruito) di Neil Perch di Zion Train che si è esibito in full-crew nella serata di mercoledì (19). Molti i progetti dub di valore ospitati, tra cui quello di Paolo Baldini Dub Files, accompagnato dai vocalist dei Mellow Mood e Forelock (il cantante della banda sarda, Arawak). Ma il super-ospite, e super-set, di questo spicchio di festival é stato senza dubbio quello di The Mighty Jah Observer, direttamente dalla Giamaica, pieno di rarità e dischi oscuri. Proprio il rituale che ci vuole in un happening del genere, partecipato con queste orecchie e questi occhi.
Gli ospiti più seduttivi di questa edizione sono arrivati nel week end, sabato (22), la band multietnica dei Dub Inc con il loro carico di vibrazioni meticcie, e domenica (23), in chiusura, l’australiano Dub Fx (con origini italiane), fenomeno del beat boxing, che ha anche regalato un set pomeridiano, a sorpresa, sulla spiaggia. Il set dei Dub Inc ha sfiorato il sold out richiamando circa 1800 presenze (sulle 5000 totali del festival), un dato che conferma la grande popolarità della band anche nel nostro Paese. Da parte loro, i francesi, hanno mostrato il consueto entusiasmo sul (e fuori) dal palco, proponendo uno show frizzante condito di suoni che spaziano dal reggae classico alla dancehall, sprazzi ska e melopee arabe (commovente e coinvolgente, “Foudagh”, un brano che parla di alcolismo); sound corposo e compatto, liriche radenti, e la sintonia dei due cantanti, Komlan (afro-francese) e Bouchkour (algerino) che ci mettono molto del loro. E la notizia è, che non ne sbagliano una ( o quasi) . Poi, un tocco di audacia, in chiusura, con Dub Fx, domenica (23). Esibizione in solo; lui e la sua proverbiale loop station (e una comparsa della compagna, Sahida Apsara, in versione hip hop-soul), così bravo da compensare la povertà scenica con i suoi stratagemmi vocali, non solo il borbottio con cui si destreggia in loop, che ha fatto la sua fortuna come busker, ma l’intonazione vocale melodiosa che piace al papà, un cultore che lo ha iniziato alla musica. “Thinking Clear”! è il titolo del suo ultimo album auto-prodotto e Dub Fx rilancia, in una tempesta di groove che manda in frantumi etichette come hip hop, rock’n’roll, reggae, jungle, drum’n’bass, pop o metal. Non si adagia su strutture prestabilite, ma è piuttosto l’approccio improvvisativo ad alimentare la sua musica, cosicché un brano può avere versioni diversissime a seconda del pubblico che ha davanti. Messo in conto il contesto, Dub FX, ha frullato in chiave reggae parecchi dei suoi brani, visto anche il cospicuo numero di criniere di dreadlocks che sbucavano dal pubblico, poco inclini ai cut up nevrotici e derivativi. In fondo é pur sempre un beatboxer che fa salva l’attitudine di strada.
Grazia Rita Di Florio
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