Peppa Marriti Band – Ajëret (MKrecords/Self, 2017)

Ci sono tutti gli elementi per vantare una buona contaminazione nel nuovo album – e in realtà nel progetto generale – di Peppa Marriti Band. “Rock Arbëresh” lo definiscono, incontrando il favore più o meno di tutti e soprattutto declinando nel modo più diretto l’insieme degli elementi che contraddistingue il genere: la lingua e la conformazione musicale. Entrambi legati a doppio filo alla tradizione e alla contemporaneità, perché i temi affrontati sono spesso quelli dei nostri giorni – in chiave sociale, politica, critica – e perché lo scenario espressivo richiama una contemporaneità poco astratta, ma piuttosto fuori da problematizzazioni di tipo formale. Il titolo dell’album, “Ajëret”, in italiano significa “I venti” e colloca la narrativa della band dentro una quotidianità molto concreta, che si esprime al meglio con ciò che meglio si ha a disposizione. L’assunto è semplice quanto efficace, sia sul piano formale che su quello dei contenuti. Difatti ascoltando l’insieme dei brani si ha l’impressione di vedere scorrere le esigenze di tutti, o di molti, così come si possono trasfigurare dentro una serie di immagini musicali. La musica, ovviamente, ha molto da dire in questi casi. Non solo perché mantiene in primo piano il suo ruolo di coagulante di espressioni, ma perché si affaccia con naturalezza e un certo grado di sentimento partecipato su diversi piani: tutti, come sto cercando di dire, annodati intorno allo scorrere dei nostri giorni. In questo quadro – nella definizione del quale mi hanno aiutato molto le stesse parole che la band ha scelto per presentare il suo progetto e promuovere l’album – ho trovato addirittura naturale la sovrapposizione tra Arbëresh, il violino e gli strumenti tradizionali del rock, come chitarre elettriche, basso e batteria. Tutto scorre fluente. Anzi, dirò di più, i brani posizionati a intervallare il flusso più omogeneo – quelli più acustici, pacati, areati e lirici come “Poezia”, o quelli scelti nel novero delle espressioni tradizionali albanesi e rimodulati con inserti decisi di ritmo cadenzato e compattezza strutturale, come “Holqia një shërtimë” – spingono forse più degli altri verso un linguaggio chiaro e netto. Perché sono rimandi, approfondimenti attraverso cui l’idea di base si rafforza e affiora con un profilo più deciso e coerente. In termini generali, le soluzioni più interessanti si incastrano proprio lì dove l’insieme degli strumenti si fa più articolato e, allo stesso tempo, pesante. Ciò che fa la differenza però non è soltanto la compresenza di violino e chitarra elettrica, ma piuttosto il modo in cui il violino interpreta la struttura di fondo, reagendo in modo creativo e per niente iconografico alle necessità che quella struttura determina: velocità, ampliamento dello spettro melodico, contrappunto ritmico e richiamo delle sonorità tradizionali. Mi sembra scontato aggiungere che non è ovvio imballare queste necessità e supportarle dentro a dodici brani, però bisogna ascoltare l’album per comprendere fino in fondo la dedizione che questo quintetto ha messo nella costruzione delle parti. In un primo momento emerge l’insieme – con una punta di svantaggio della struttura rock, perché è segnata da un insieme di elementi diffusi, storicizzati, comprensibili – poi, andando avanti nell’ascolto (e tornando anche indietro), emerge la tessitura della trama. E assume uno spazio più grande, all’interno del quale si comprendono anche alcune fasi del processo di costruzione dei brani. Un processo sicuramente divergente, irregolare, ma pieno di ottimi spunti, dentro il quale, tra gli elementi che polarizzano verso la tradizione, bisogna dare il giusto spazio alla voce, sempre piena e decisa, ancorché morbida e raffinata. 


Daniele Cestellini

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