Inna de Yard –The Soul Of Jamaica (Chapter Two Records, 2017)

L’essenza di questo progetto che – vale la pena precisarlo subito – mette a segno un disco strepitoso, risiede nelle parole del chitarrista Earl Chinna Smith, tratte da uno stralcio d’intervista pubblicata sul sito www.makasound.com: « Le persone si comportano come se volessero inventare una nuova luna, o una nuova stella, o una nuova terra. Ma queste cose esistono già, e nessuno le può rifare. Ognuno deve apprezzare la luna tutte le sere quando brilla. È lo stesso per il reggae, è tutto là, già esiste. Basta che giovani e anziani si mettono insieme e ricreano la magia». Che ci sia, in poche parole, l’intento di catturare l’anima e i corpi vivi e palpitanti di Giamaica (The Soul of Jamaica). Esattamente quello che succede in questo disco: e la notizia non é tanto che vecchie leggende del reggae e nuove starlette locali vengano convocati assieme nel cortile (yard significa per l’appunto cortile/giardino, da cui il nome del progetto, Inna de Yard, che da un punto di vista socio-antropologico simboleggia unione e condivisione) di una casa sulle colline per una jam session acustica, ma che il gioco funziona. Nel senso che la magia c’è, e sta tutta lì in quel suono grezzo e materico, in quel lessico, popolare ed efficace, in quelle voci che catturano ed esprimono l’orgoglio, la passione, le lotte e l’umorismo (già!) di un popolo, e soprattutto nell’amore per quello che ogni musicista sente e mette in quello che fa. Musica autentica e sincera. Decollato agli inizi del 2000, il capostipite del progetto Inna de Yard é stato proprio lo storico chitarrista dei Soul Syndacate, noto al pubblico internazionale per aver suonato con i Wailers di Bob Marley (1975-76), ma con un curriculum molto lungo e prestigioso che va dagli Upetters di Lee Perry, agli Aggrovators (la house-band del produttore Bunny Lee), fino ai Melody Makers di Ziggi Marley e Sizzla. Le prime due edizioni sono state registrate nella “yard” del chitarrista, nella “parrocchia” (che in Giamaica indica un distretto territoriale) di St. Andrew e pubblicate sulla francese Makasound rispettivamente nel 2008 e nel 2009, accreditate perciò a Earl Chinna Smith&Idrens. (“idrens” è un termine che tradotto dall’inglese rastafariano, che differisce dal creolo giamaicano, significa “bambini”: quindi potremmo qui intenderlo come “figliocci”). Il progetto é rinato lo scorso anno con il supporto dell’etichetta Chapter Two Records, una sussidiaria della Wagram Music, dietro cui si celano le menti della Makasound resuscitata sotto nuove spoglie dopo la liquidazione del 2011. “Faire le bœuf “ – che in francese sta per fare una jam session – secondo quest’album significa mettere in bella mostra un trio vocale del calibro dei Viceroys (“Love is The Key”), debuttato a Studio One nello stesso periodo di Ken Boothe, che ripropone qui due titoli da brividi: “Let The Water Run Dry” del 1968, resa nella sua brillantezza dalle backing vocals dei The Viceroys a mo’ di controcanto alla voce adamantina di uno dei più amati soulmen di Giamaica incastonata tra sfrenate percussioni nyabinghi e un fendente di chitarra, secca e asciutta, “e Artibella”, un classico del 1964 a nome di Stranger & Ken (con Stranger Cole). La tracklist di tredici brani selezionati tra ventidue incisioni è satura di umori musicali popolari, siano essi declinati nelle parole accese di “Money for Jam” o “Slaving” di Lloyd Parks che raccontano la dura vita dei lavoratori delle piantagioni di canna da zucchero o del mercato che schiumavano sangue per portare a casa qualche spicciolo, o in chiave spiritual da Kiddus I (“Jah Power”, “Jah Glory”), registrata nel 1979 negli studi Tuff Gong su Sheperd Label, o nel micidiale falsetto di Cedric Myton che fece la fama del suo gruppo, The Congos negli anni ’70, in un altro brano del 1979 tratto dal loro secondo album, “Congo Ashanti”, praticamente una chiamata senza appello alla rivoluzione Rasta, oppure nello stile di Winston McAnuff che è solito intingere la voce in un suono denso e materico, in un lento ed elaborato costrutto come “Secret”, una delle sue canzoni con un surplus di pathos grazie anche alle back vocals eteree, che fa pensare al fatto che lo stile che sta più a cuore in Giamaica non è il reggae, ma il gospel. Ciò che accomuna i cantanti e i musicisti che hanno preso parte al progetto non é l’idea di un’operazione nostalgia ma l’idea di recuperare, valorizzare e trasmettere un patrimonio musicale e popolare di cui soprattutto le giovani generazioni stanno perdendo sempre più il senso e i valori. A ridurre le distanze generazionali è insomma qui la voglia di sbarazzarsi di sintetizzatori e suoni digitali in favore di un suono acustico “più autentico”, senz’altro “più puro” e non sfigura al cospetto di un siffatto olimpo di star musicali né il featuring di Kush McAnuff, figlio di Winston (“Black To I Roots”) con in testa la lezione più che del proprio padre di un Burning Spear d’annata (Marcus Garvey), né l’appeal di Var (“Crime”), o lo stile vocale di Derajah (“Stone”), tra i più espressivi della nuova generazione. “The Soul Of Jamaica” è uscito il 10 marzo e avrà un tour promozionale che partirà il 19 aprile dall'Aéronef di Lille e farà tappa il 22 aprile alla Filarmonica di Parigi, e che speriamo di incrociare in uno dei festival italiani dell’estate per non essere costretti a cercarlo in un happening attraverso l’Europa. 


Grazia Rita Di Florio

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