Terrakota – Oxalá (Zephyrus, 2016)

Di propensione meticcia fin dalle origini, i portoghesi Terrakota, superata la fase afro-reggae degli esordi, si sono imposti con i loro compatti ma diretti incroci plurilingui e poliritmici di matrice world, soprattutto in dischi come “Oba Train”e “World Massala”. Dopo aver prodotto l’EP “Wontanara” nel 2014, per il sesto album in studio il combo lisboeta si ripresenta con volti nuovi nella line-up (non c’è più la vocalist angolana Romi, dentro il cantante e polistrumentista Gonçalo Sarmento, il batterista Márcio Pinto, il percussionista Paolo Das Cavernas e la danzatrice Diana Rego). Già il titolo “Oxalá” è simbolo della multiculturalità e della cifra cross-over della band. Difatti, il termine portoghese, derivato dall’espressione araba ‘in-Sha'Allah’, esprime la speranza che qualcosa accadrà: ‘se Dio vuole’. Nondimeno, oltreoceano, Oxalá o Obatala è una divinità di primo piano del culto sincretico del candomblé. Il programma del disco parte dall’Africa con “Gira Giro”, tema morbido dai lineamenti acustici, condotto da flauto, kora, chitarra e percussioni, che ci porta nei territori del batuque capoverdiano. Si prosegue con il calypso-soukous di “Jah Flow”, canzone che racconta di un rappresentante di una multinazionale agro-chimica che, giunto in un paese caribico a promettere abbondanza di cibo, si scontra con lo scarso interesse di un contadino locale. Si respira ancora un inno alla Terra Madre quando ci immergiamo nei suoni della natura, che attraversano “Entre o Céu e a Terra”: qui le coordinate sonore sono fisate nel nordest del Brasile, ma non mancano stranianti tocchi di sitar indiano. Ci si tuffa nella gioia danzereccia, tra Angola e Congo, condita di elettronica in “Mexe Mexe” (featuring il produttore e Beat Laden). È la volta della denuncia del profitto delle banche e degli investitori stranieri fatto a ritmo di afro-beat-rock (“Social insecurity”) e di soukous (“Bankster”). Con il suo gusto desert rock, la title-track porta la band a duettare con Vitorino, celebre icona folk dell’Alentejo. Il panorama musicale della successiva “Deserto amanhã” riunisce rock saheliano, reggae e ritmica gnawa, mettendo ancora l’accento sui disastri ambientali. In “Heartist” il ritmo è in levare, mentre il groove funk-rock prevale in “Wari”: sul testo del rapper e attivista angolano Luaty Ikonoklasta si unisce alla band portoghese il rapper francese Florian Doucet e c’è spazio per un bello e inatteso inciso di ‘ūd. L’invito a non lasciare da parte i sogni è racchiuso nel calore reggae di “Cegueira”, dove entra la sezione fiati della Kumpania Algazarra. In coda, “Kutch Nahi” ingloba Africa (kora, chitarra e djembe), dub-reggae e India (le tabla di Niraj Singh, il sitar e il canto di Mahesh Vinayakram). Eccellente ritorno.


Ciro De Rosa

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