Nando Brusco - Tamburo e’ voce. Battiti di un cantastorie (Teatro Proskenion, 2016)

La forza rigeneratrice e vibrante del canto sul tamburo del cantastorie calabrese tra memoria orale, afflato identitario e impegno sociale: suona il tamburo, raccontando storie. 

Tra i tanti dischi ascoltati in qualità  di pre-selezionatore per le Targhe Tenco, il CD di Nando Brusco ha colpito per la forza narrativa terragna, affidata alle pelli percosse e alla sola voce. Non sono stato il solo tra i colleghi giornalisti della commissione a riconoscere la malìa della musica autoprodotta del trentottenne musicista calabrese. Tuttavia, i soli diciannove minuti dell’album e la scaletta, stante il regolamento del Club Tenco, ci ha impedito di proporlo per la sezione dei dischi in dialetto. Così scrive il percussionista Luca De Simone nel presentare il disco di Brusco: «Il tamburo di Nando si fa terra e montagna, zappa e barca in mezzo al mare, ali d’uccello e focolare, si fa terremoto e tempesta, si fa amore e morte, rabbia e speranza. La voce diventa racconto, ed il racconto immagine. E io vedo aprirsi la Calabria per svelarci il simbolo che sottende. Vedo ciclopi tra Sibari e Crotone, vedo gigantesche trombe marine, come teste di Idra, innalzarsi tra ponente e l’Isca, nel mare di fronte a Belmonte. Vedo giganti solcare la terra di Fragalà». Sulla spinta di queste sollecitazioni e con la curiosità di approfondire la conoscenza con questo novello cantastorie, che fonde canto, ‘cunto’ e ritmo, “Blogfoolk” ha raggiunto Nando Brusco, che vive a Belmonte Calabro, sulla costa meridionale tirrenica cosentina, per ascoltare la testimonianza della voce del suo tamburo. 

Parliamo degli inizi, nella tua famiglia si cantava? Come hai appreso a cantare?
Sono nato e vivo da sempre a Belmonte Calabro. Provengo da una famiglia umile, padre muratore, mia madre sarta casalinga. In famiglia eravamo in sette: quattro figli e mia nonna materna. Agli inizi del mio percorso artistico non c'è il canto ma la danza, che ho appreso da mia nonna così come da lei ho ricevuto l'amore e la conoscenza del raccontare. Era lei che mi raccontava le storie. 

E il tamburo come lo hai appreso?
Enzo Ruffolo, il mio primo maestro di vita e di arte, notando la mia abilità nella danza tradizionale (espressa nelle feste, nei matrimoni, ovunque si ballava io lo facevo) mi coinvolge in un suo progetto musicale proprio con il compito di ballare ad un certo punto dello spettacolo cercando di coinvolgere le persone del pubblico. La cosa riesce e facciamo un paio di stagioni così. Questo ritmo che avevo dentro, a un certo punto, Enzo mi mi invita a trasferirlo su uno strumento, il tamburo: è stato un colpo di fulmine che ancora dura. Da quel momento ho cominciato a studiare le varie tecniche tradizionali del Sud Italia,  ho intrapreso una serie di incontri (che ancora continuano perché non si finisce mai di imparare) con i grandi maestri dello strumento, ma anche con i suonatori più anziani per carpire appunto le tecniche tradizionali. Le situazioni nelle quali ho avuto la possibilità di incontrare dei suonatori tradizionali, sono state sempre le feste patronali, i pellegrinaggi, Polsi, Riace, Festa della Pita, Madonna del Pollino, e altri ancora, ma anche momenti particolari in cui ho semplicemente osservato i suonatori e chiesto loro, con garbo e senza ansia da piccolo antropologo, i movimenti della mano sullo strumento. Cerco di confrontarmi anche con i ritmi e le tecniche del Medioriente. L’idea è quella di cercare un propri modo di interpretare lo strumento. Una direzione che va più verso la capacità evocativa e di espressione dello strumento che non verso il virtuosismo ritmico.

Qual è il tuo percorso artistico?
Naturalmente agli inizi il tamburo era lo strumento di accompagnamento da suonare per far ballare le persone. E così l'ho inteso per tutta la mia prima parte di vita artistica nella quale, dopo aver suonato in varie formazioni, insieme a Biagio Accardi e Oreste Forestieri ho formato il trio Nagrú. Questa è una tappa fondamentale perché questo progetto è stato una vera propria palestra artistico/musicale. Centinaia di concerti in acustico e sul palco. Abbiamo rappresentato la Calabria in più di un'occasione trovandosi a suonare a rassegne e festival che coinvolgono gruppi da tutta Italia, produciamo un disco e lasciamo un segno nel panorama della musica popolare. Finito il progetto Nagrú  mi sono ritrovato a portare avanti il desiderio di raccontare ciò che già coltivavo e a studiare ancor di più il tamburo. C'è da dire che parallelamente a tutto ciò ho portato avanti il mio percorso di studi universitari che mi hanno permesso (attraverso l'antropologia culturale) di poter guardare con altri occhi ai processi di inculturazione ai quali ero stato soggetto nella mia infanzia. Il ballo e il racconto, la musica (il ritmo e quindi il tamburo) con le storie. Ecco che finita l'esperienza Nagrù, capisco che è ora di far convergere tutte queste energie in un progetto che le racchiude.  Ed ecco che il tamburo rappresenta l'aspetto musicale e la voce, più che il canto - che pure sviluppo - rappresenta il cunto, l'oralitá e  le storie che hanno sempre accompagnato la mia esistenza (sono laureato in storia). Da un punto di vista discografico, ho collaborato alla realizzazione di "A nasci e a morì...è  'na cantata" con Nagrù,  "Quannu vene l'anarchia" con i Suonatori Libertari Calabresi, "Taranta Muffin" di Taranta Muffin, "Delicato" di Na'im e "L'albero che cammina" con Biagio Accardi. 

Ti identifichi con la figura del cantastorie?
In sintesi io lavoro inizialmente sul testo (tradizionale, di mia composizione o di altro) e cerco di evocare, restituire, descrivere col tamburo  le immagini chiave dello stesso testo e della storia che racconta. La figura del cantastorie non ha un modello preciso. Se pur nella storia si sono succeduti molti cantastorie che avevano dei tratti comuni, erano tuttavia molto diversi fra loro: Strano, Busacca, Profazio sono stati – Profazio ancora lo è – dei grandissimi ma con delle caratteristiche particolari che li caratterizzava. 
Quindi , io (he non uso cartelloni e non suono la chitarra ma addirittura i tamburi sono un cantastorie atipico. Mi ritengo tale nella misura in cui mi piace raccontare delle storie attraverso la forma canzone sfruttando la mia lingua d'origine, trovando un mio modo di cantare e cuntare, oserei dire un mio stile, e affiancando a tutto ciò una grande attenzione e ricerca verso la poesia dialettale.

In che rapporto sei con il revival calabrese? 
Ho ascoltato e apprezzato molto il lavoro di Re Niliu, Antonello Ricci, ma anche quello di Profazio, dei lucani Totarella, dei Mattanza, di Danilo Montenegro. In generale posso dire che ho sempre avuto grande attrazione per i progetti che riuscivano a coniugare l'aspetto musicale, con quello autoriale. I testi, le parole, le storie, i messaggi da veicolare. Fuori regione sicuramente i Taberna Mylaensis sono stati un gruppo e un progetto musicale e autoriale meraviglioso. Ancora apprezzo molto il lavoro di due gruppi: Lassatilabballari di Palermo, che hanno un repertorio si di danza, ma che guarda a tutta l'Europa e sono dei musicisti fantastici; e poi i Calatia di Caserta, che sono dei musicisti altrettanto bravi e cercano di incrociare i testi e ritmi della tradizione casertana legata al mondo della coltivazione e lavorazione della canapa con le sonorità e gli ambienti di oggi. Un seme di canapa nel cemento. Inoltre, mi piacciono Matilde Politi e Anna Cinzia Villani.

Canti storie lontane o più vicine a noi, leggende… come ci aiutano a capire l’oggi? 
Per la mia formazione accademica e culturale mi piace più andare a guardare nei fatti, e nelle storie che riguardano il passato della mia terra e del sud. Paradossalmente trovo che per raccontare la Calabria di oggi si debba guardare a quella di ieri, ma non in un ottica di apologia del bel tempo che fu, ma in chiave critica e neutrale sfatando alcune convinzioni e portando nuovi elementi alla discussione sull'identità e sul nostro essere oggi cittadini del mondo.

Come si può raccontare la tua terra, la Calabria di oggi?
La poesia dialettale per esempio ci dice che (per lo meno dal ometto dell'unità ad oggi) i Calabresi hanno avuto il coraggio di DENUNCIARE (nero su bianco) la corruzione, la mala politica, le mancate promesse, la povertà che attanagliavano la Calabria e il sud all'indomani del processo unitario. Quindi il calabrese succube e incapace di ribellarsi ai soprusi e alle ingiustizie, è uno stereotipo che a volte può essere smontato e la poesia dialettale (Ciardullo, Martino, Pelle, Pelaggi, Butera, ecc.) in questo è straordinaria.  Oggi è difficile inseguire il presente e raccontare i fatti che si susseguono. Si resta sempre indietro. Certo, si deve guardare a quello che succede , ma personalmente cerco sempre di trovare delle connessioni, delle linee trasversali che permettano , raccontando un fatto, una storia, di essere più rappresentativi possibili.

Cosa ti piace di meno della musica calabrese di oggi riconducibile alla tradizione orale?
In Calabria mi piace poco quella sorta di omologazione estetica e di contenuti musicali che si sta affermando. Stesse formazioni, stesse disposizioni sul palco, stesso repertorio o quasi. Naturalmente con delle eccezioni, che però sono poche. Di contro, mi piacciono quei peones di periferia che arditamente cercano di muoversi in direzione ostinata e contraria. 

Un disco di canto e tamburo è una bella sfida! Però, è un disco un po’ breve. 
Il disco è figlio dello spettacolo dal vivo, non era mia intenzione fare un progetto esclusivamente discografico. Volevo un prodotto che fosse originale e che mi rappresentasse. Ascoltandolo uno poteva immaginare lo spettacolo e chi aveva visto lo spettacolo, ascoltandolo, poteva portarsi dietro un ricordo dello stesso. Inoltre, non ti nascondo che fare un disco per sola voce e tamburo è un bel rischio! Pertanto, ho preferito non rischiare ulteriormente mettendo altri brani. 

Voglio chiederti di due brani: il primo è “Sona Tamburo”, dove sembri parlare al tuo strumento… 
È un brano che ho composto io e che risulta come un rituale nei confronti dello strumento. Una sorta di preghiera laica che rivolgendosi al tamburo gli chiede di raccontare (Tamburo è Voce) di predisporsi ancora una volta a tirar fuori quegli spazi espressivi, quei suoni che lo fanno diventare strumento musicale, narrativo ed evocativo e che lo riportano ai tempi di Ulisse, di Sibari, di Colapesce, per arrivare alla piazza dove la gente che ascolta può anche ballare.

L’altro è “A Fragalà “, che hai presentato alla selezione del Premio Parodi. Come selezionatore mi aveva molto impressionato e, ti confesso, che l’avevo votato. Purtroppo non è entrato nella rosa dei primi dieci. 
Ti ringrazio per l’apprezzamento. È un brano che racconta dei fatti di Melissa. Ho trovato l'ispirazione leggendo uno scritto di Leonida Repaci (grande scrittore calabrese) che ha usato l'arte della letteratura per raccontare e far riflettere su un fatto realmente accaduto. In quest'ottica il tamburo è diventato il cammino stanco e irregolare dei  contadini e poi le loro zappa,  fino a diventare i colpi di arma da fuoco.

Progetti futuri?
Sto svolgendo una ricerca sulla poesia dialettale calabrese: ci sono poeti che nel periodo post-unitario e fino alla metà del secolo scorso hanno scritto una sorta di poesia di protesta, che sono andati giù duro, denunciando la corruzione e il malaffare...  Questo come spettacolo live, ma non ti nascondo che ho in repertorio altri brani per tamburo e voce, che serviranno ad integrare questo disco o ad aprire un secondo capitolo discografico. Pe me voce e tamburo sono sempre un contenitore nel quale butto le suggestioni che mi arrivano, i nuovi progetti creativi nascono sempre da tamburo e voce. Poi si possono sviluppare con un organico diverso, come accade nel lavoro che faccio con il duo Adamà, di percussioni e violino, con Emanuele Filella, che ha un respiro  mediterraneo. Ma tamburo e voce si rinnova continuamente, è un continuo divenire perché è quello che mi rappresenta di più, che ispirano il mio processo creativo, musicalmente e – diciamo - teatralmente.



Nando Brusco - “Tamburo e’ voce. Battiti di un cantastorie” (Teatro Proskenion, 2016) 
#CONSIGLIATOBLOGFOOLK

L’incipit è noto, sono le parole di Salvatore Filocamo e Ignazio Buttitta che conclamano la vitalità del dialetto come voce di un popolo libero: è l’elogio della memoria, che fa da apripista a questo album in cui voce, timbro delle pelli si fanno racconto, si fanno immagine vivida.  Un disco che è ricerca artistica ed esistenziale, è “L’amuri di Calabria”, come è intitolato lo  spettacolo dal vivo di Nando Brusco, è il racconto della sua terra. “Sona Tamburo” è il potente canto propiziatorio che evoca il passato glorioso della terra di Calabria. Con “Punente e L'Isca” il tamburo si fa voce della burrasca in un testo tradizionale proveniente da Amantea e musicato da Brusco. Il canto descrive la capacità dei pescatori di intravedere le avvisaglie del maltempo e di conseguenza le manovre da fare sulla barca.  L’eccidio di Melissa del 29 ottobre 1949 è rievocato nella splendida “A Fragalà” (l’episodio era entrato anche in una strofa di “Passato, presente” di Lucio Dalla). Parliamo della mobilitazione e dell’occupazione delle terre da parte dei contadini calabresi, i quali chiedevano il rispetto dei provvedimenti governativi emanati nel dopoguerra.  L’intervento dei reparti della celere richiesto dai parlamentari democristiani calabresi (il ministro degli interni era Scelba) nella tenuta Fragalà, incontrò la resistenza dei manifestanti. La polizia aprì il fuoco sui contadini ferendo almeno quindici persone e uccidendo Francesco Nigro (29 anni), Giovanni Zito (15 anni) e Angelina Mauro (23 anni, la quale morì in seguito alle ferite riportate). L’incalzante “Filastrocca” tradizionale che segue è legata alle memorie avite, mentre la potente “Rinninella” porta un ritmo di 7/8 su un testo tradizionale. Infine, c’è “L'amuri canta”, una poesia d’amore scritta da Vittorio Butera, musicata da Brusco su una misura di 10/8. Sono diciannove minuti d’intensità: veri, naturali e appassionati. Info: nandobrusco@gmail.com



Ciro De Rosa

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