Mishkalè - Shtetl! Yidele’s recollections (Autoprodotto, 2015)

Tutto chiaro fin da subito con “Shtetl! Yidele’s recollections”, il nuovo album dell’ensemble italiano Mishkalè. Tutto chiaro e armonioso, delicato e preciso: la musica dentro un suo contesto sociale definito, gli strumenti organizzati in un dialogo profondo e coerente, la voce (di Maria Teresa Milano) densa e delicata allo tesso tempo, l’ensemble (un sestetto composto da clarinetto, tromba e flicorno soprano, trombone, tuba, fisarmonica, batteria e darbuka) dentro un assetto senza sbavature. È interessante come ogni singolo elemento si trovi al suo posto. Certo senza retorica - come ci dice Enrico Fubini nelle note di copertina - perché un programma di riproposta è anche un progetto di scrittura. È un processo di interpretazione che fa riferimento a elementi che si sono studiati, analizzati, conosciuti, indagati nel dettaglio. Senza questo forse si crea l’oleografia che tutti detestano, e si finisce per impantanarsi in una specie di fotografia che di bello ha solo il soggetto. Invece, inquadrando l’idea dell’interprete dentro l’insieme delle fonti, dei dati, dei suoni, delle dinamiche culturali definite da fattori storici e politici conosciuti (anche se non da tutti), si riesce a dar voce alla propria voce. I Mishkalè ci regalano proprio questo, con il doppio merito di ricordarci una serie di informazioni fondamentali sul piano storico oltre che artistico (la musica ebraica prodotta e socializzata in un contesto definito come quello dello Shtet) e di riconnetterle a un flusso narrativo in tutta la loro complessità. Come leggiamo ancora nelle note al disco, il linguaggio dell’ensemble - che in molti casi (“Bei Mir Bist Du Shein”) riesce a riflette la complessità storica della musica yiddish - non si ferma alla documentazione, per quanto avrebbe comunque un valore sia estetico che di contenuto. Riesce a produrre le tracce che ha lasciato il lungo percorso delle musiche delle comunità ebraiche dell’Europa dell’est. Musiche che assumono un profilo spesso sfuggevole solo perché molto articolato. E che si configurano - meglio di molte altre che si assumono spesso a paradigma di processi migratori o di contaminazione stilistica - come in movimento continuo. Il movimento, poi (che non può essere dato per scontato, specie quando si lavora sui repertori tradizionali), è certo insito nella società ebraica a cui fanno riferimento i Mishkalè. Ma riceve una spinta fondamentale attraverso le loro interpretazioni, che sottolineano una dinamica strutturale ma non per questo scontata (e data una volta per tutte) nella riproposta. Invece i tredici brani inseriti in scaletta si muovono senza sosta tra fiati sinuosi e ritmi decisi, sostenuti dalla densità suadente della voce. La quale, in brani come “Papirossen”, riesce a convogliare tutti gli elementi (ritmici e armonici), rialzando l’andamento delle musiche sopra un livello più visionario e allo steso tempo concreto. Soprattutto i fiati – che spesso aderiscono perfettamente alle cadenze precise e secche della ritmica – accompagnano e orientano il movimento dei brani, definendo il profilo cangiante di musiche mai uguali a sé stesse e che soprattutto riescono a insinuarsi nel jazz, oltre che in altri ambiti di cui, attraverso l’esodo verso gli Stati Uniti, hanno assorbito i riflessi. Insomma l’impressione è che i Mishkalè abbiano trovato l’equilibrio giusto tra il passato e il presente, individuando (e muovendosi con coerenza tra) due poli significativi della produzione espressiva. Da un lato la lettura di una tradizione composita e di un insieme di “comportamenti musicali” incastonati in un contesto riconoscibile, sebbene non più esistente nella sua forma originale. Dall’altro la ripresa e la valorizzazione di un linguaggio dentro un contesto più mobile e in continua trasformazione. Nel quale le musiche dello Shtetl assumono necessariamente una nuova estetica e nuovi significati. 


Daniele Cestellini

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