Elza Soares è un’icona della musica brasiliana: ha iniziato la carriera artistica da giovanissima e oggi con “The woman at the end of the world” – votato miglior album del 2015 da “Rolling Stone Brazil” e pubblicato a livello mondiale nel 2016 dall’etichetta Mais um discos - la cantante, quasi ottuagenaria, ha raggiunto il numero trentaquattro tra i lavori registrati in studio. L’esistenza di Elza si è svolta tra alti e bassi, anche per alcune vicende che l’hanno resa problematica. Nata nelle favelas di Rio de Janeiro, dopo essere stata costretta a sposarsi a dodici anni, aver avuto tre figli – de i quali uno morto per malnutrizione –, a ventun anni si è ritrovata vedova. A sedici anni Elza era stata notata in un talent radiofonico, a venticinque la sua carriera è decollata cantando nei club e negli hotel. La sua vita sentimentale divenne di pubblico dominio per il legame con il calciatore Garrincha, con il quale fu costretta a emigrare quando un governo militare prese il potere. Ancora drammi da affrontare, con la morte del loro figlio, a dieci anni, in un incidente stradale e con i problemi di alcolismo del calciatore. Nel 1997 con “Trajetòria”, Elza riceve Lo Sharp Award come migliore cantante di samba, e da allora ha risalito la china: due anni dopo la BBC l’ha selezionata per partecipare ai suoi Millennium Concerts in rappresentanza del Brasile e da lì in poi non le sono più mancati altri prestigiosi riconoscimenti. Cantante dalla voce roca e sensuale, interprete straordinaria, la Soares è un simbolo per coloro che aspirano all’eguaglianza e ad una vita migliore, rappresentante dei diritti delle donne, dei gay e dei neri. Dopo la prima traccia “Coraçao do mar”, con le parole del poeta brasiliano Oswald DeAndrade recitate da Elza, parte la musica con l’apocalittica title track “A mulher do fim do mundo” con cui si viene subito inghiottiti nel drammatico mondo di Elza. Arrangiamenti scarni ma potenti: chitarra elettrica, tastiere, percussioni, cavaquinho – il cordofono simile ad una chitarra a quattro corde -, sassofono, ma soprattutto la voce di Elza, la sua inconfondibile voce roca con un appeal da paura, che si muove a momenti tristissima, a momenti disperata, urlando e piangendo tra samba sujo, rock, ritmi capoverdiani, free jazz, afro-beat e atmosfere dark. Distorsioni, accenni di musica elettronica, l’incalzante cavaquinho, Elza canta canzoni composte appositamente per lei e mai registrate in precedenza, affrontando testi che parlano della vita nel Brasile di oggi, afflitto da violenza domestica, razzismo, droga. Le storie raccontate in questo album non sono edulcorate ma parlano apertamente di sesso e di violenza degli uomini sulle donne, rifuggono dalle apparenze affrontando a viso aperto i demoni di una società in cui gli abusi sono all’ordine del giorno. Il clou dell’album arriva con “Benedita”, la storia di un transessuale, “una bestia ferita” che muore facendosi di crac. L’equipe che l’accompagna, composta da musicisti che hanno evidentemente il piacere di sperimentare, è formata da Kiko Dinucci (chitarra), Rodrigo Campos (cavaquinho), Marcelo Cabral (basso), Felipe Roseno (percussioni), Guilherme Kastrup (batterista ed anche produttore dell’album) insieme a tanti altri musicisti che intervengono al sax tenore e baritono, alla tromba e al trombone, agli archi. Romulo Fróes e Celso Yes, entrambi direttori artistici dell’operazione, hanno composto i brani per Elza Soares, che ha raccolto la sfida ottenendo un album assolutamente moderno, eccessivo, esplosivo. Quaranta minuti, undici brani, per un ascolto non tranquillizzante guidato dalla voce di una donna che incarna l’energia vitale, al capo di un mondo che sembra, soltanto apparentemente, molto lontano dal nostro.
Carla Visca
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Sud America e Caraibi