Chi è alla ricerca di espressioni nuove non può lasciarsi sfuggire “Tules maas vedes taivaal”, l’album d’esordio del quartetto vocale Tuuletar, composto di otto tracce cantate in finlandese a cappella. Le quattro componenti del gruppo – che ha alle spalle alcune autoproduzioni con cui è riuscito a farsi egregiamente largo nello scenario musicale (“folk hop”, oppure “Urban nordic folk”, come viene definito nelle note all’album) europeo e americano – sono delle cantanti eccellenti, con la spinta di un progetto artistico sufficientemente imprevedibile e, anche solo per questo, interessante. Come detto, le quattro ragazze (di cui voglio ricordare i nomi, perché anche chi legge possa iniziare a familiarizzare: Venla Ilona Blom, Sini Koskelainen, Johanna Kyykoski e Piia Sailynoja) sono di base a Helsinki, ma dal 2012 hanno intrapreso diverse strade oltre i confini finlandesi, diffondendo l’idea – strutturalmente semplice e comprensibile – di far coincidere le esecuzioni a cappella con un beatboxing, sempre vocale, molto piacevole ed efficace. Come si può immaginare, ciò che ne emerge è un programma molto definito sul piano stilistico, ma che attraverso la costruzione melodica e armonica si configura come estremamente vario. A differenza di ciò che forse può sembrare, questo ultimo aspetto non è scontato, sopratutto perché – lo si intuisce fin dai primi ascolti – diviene quello che distingue, meglio di tutto il resto, la produzione della band (“Alku”). Anzi ciò che mi ha colpito – e che ho motivo di credere abbia attratto anche chi prima di me ha analizzato l’album, spingendosi a interpretarne il progetto sul piano strutturale e contenutistico (si possono leggere alcune riflessioni di giornalisti e osservatori internazionali sul sito della band) – è la tensione sperimentale di tutti i brani (“Edotan”). Una tensione che si delinea in maniera molto fluida (sono tentato di tirare in ballo la “spontaneità”, ma proverò a trattenermi) e che assume i tratti di una serie di variazioni ricercate e mai ridondanti. Allora, già questo è un buon segno, indipendentemente dai gusti musicali. In più c’è la competenza tecnica, attraverso la quale le cantanti riescono a definire il profilo di un programma musicale semplicemente nuovo, a volte innovativo sul piano estetico oltre che strutturale, che non ha nulla da invidiare a nessun gruppo o artista più conosciuto. Anzi a volte sembra proprio che i mezzi di cui dispone la band – le sole voci e il lavoro di intreccio di queste, sul piano anche ritmico – costituiscano il volano di tutto il processo compositivo ed esecutivo. Gli esempi sono molti e in molti di questi si possono riconoscere alcune tracce di un lavoro che, ancorché efficace negli esiti, si articola attraverso la ricerca, alcune tradizioni, lo studio e l’interpretazione di fonti anche popolari(“Valkia”). D’altronde dal folk hanno iniziato le Tuuletar. E in particolare da quello danese – in Danimarca, dove tutte a quattro stavano svolgendo degli studi di approfondimento nell’ambito della musica, si sono conosciute – e da quello finlandese. Il lavoro di composizione di brani originali è venuto dopo, sulla base, appunto, delle suggestioni della ricerca degli inizi. Dicevo dei brani (dovrei accennare qualcosa di ognuno per corroborare ciò che ho detto). Ce ne sono almeno due (“Kohma” e “Loimu”) da segnalare tra i più rappresentativi dello spettro che le Tuuletar riescono a tratteggiare e che – forse qui si insinua un po’ di retorica inutile – sono accomunati da un alone vagamente mistico. Attraversato però da un pragmatismo compositivo che definisce non tanto un’ambiguità, ma una più accettabile relazione contrappuntistica tra una sovrastruttura eterea, e fortemente armonica, e il ricorso a dei puntelli ritmici e timbrici che ancorano l’esecuzione a una forma molto definita.
Daniele Cestellini
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