Lo scorso 22 settembre, nella splendida cornice dell’Anfiteatro Romano di Lecce, è andata in scena la seconda edizione del Folkfestival “Bruno Petrachi”, facendo tornare a ruggire e non ad arrugginire le note e i ricordi del cantante e fisarmonicista leccese, scomparso il 16 maggio 1997, la cui gigantografia campeggiava sul fondo del palco. Non casuale è stata tanto la scelta della data, in quanto il 22 settembre è il giorno in cui nacque, quanto la location, a sottolineare l’esigenza di riaffermare l’importanza del folk urbano che per anni ha caratterizzato musicalmente la città barocca e l’intero Salento. Infatti, con la riemersione e la riproposta della pizzica pizzica nell’ultimo ventennio, questo genere è stato ingiustamente marginalizzato pur rivestendo una grande importanza dal punto di vista storico e sociale. Negli ultimi anni, il folk urbano ha ripreso pian piano vita, grazie all’opera del figlio di Bruno Petrachi, Enzo, il quale ha dato vita lo scorso anno a questa rassegna, intraprendendo una strada senza dubbio interessante come dimostra il successo riscosso.
Se la prima edizione, svoltasi fuori dal centro cittadino, aveva visto una platea composta per lo più da giovani, quella di quest’anno è stata caratterizzata da un pubblico agée che ha subito occupato le oltre cinquecento sedie, predisposte nell’arena, non lasciandosi sfuggire l’occasione di riascoltare le canzoni della loro gioventù. Meno fortunati sono stati i più giovani a cui è toccato occupare i gradoni in pietra dell’anfiteatro, ma in linea generale il risultato di pubblico è stato davvero sorprendente contando oltre mille spettatori. La serata ha visto un susseguirsi continuo di belle sorprese a partire da Checco Lepore, capitano del Lecce Calcio, che ha cantato in duetto con Enzo Petrachi “Mieru Pezzetti e Cazzotti”, uno dei classici del repertorio del cantante leccese, diventato quest’anno il tormentone della squadra salentina nel ritiro precampionato ed ovviamente anche di tutti i tifosi. Nel corso della serata è intervenuto anche il vicesindaco di Lecce, Gaetano Messuti il quale ha annunciato l’intenzione del comune di intitolare una strada alla memoria di Bruno Petrachi, e tra gli apprezzamenti generali, dal palco qualcuno ha urlato in dialetto salentino “era ura!” (era ora!).
In effetti, intitolare semplicemente una strada, magari anche periferica, non basta. E’ necessario riscoprire le canzoni, gli stornelli di Bruno Petrachi, che hanno scaldato il cuore di intere generazioni di salentini, emigrati in tutti gli angoli del mondo. Il cantante e fisarmonicista leccese ha raffigurato musicalmente i tratti somatici di questa terra, ha letto prima di altri le dinamiche di una società che stava mutando i suoi connotati. Attraverso le sue canzoni, possiamo leggere e ascoltare, lo spaccato di quelle vite vissute riconoscendone i vizi e le virtù. Il festival ci ha regalato proprio questo, facendoci respirare di nuovo l’atmosfera unica delle sue canzoni, quella di una Lecce che forse non c’è più ma che merita di tornare alla luce. Nel corso della serata sono saliti sul palco tantissimi ospiti da Emanuela Gabrieli a Mino De Santis, da Luigi Bruno a Cristoforo Michele passando per Terron Fabio dei Sud Sound System, Salento All Stars, Rankin Lele, Papa Leu, i quali hanno ricordato quello che Bruno Petrachi ha rappresentato per la loro crescita musicale, ma soprattutto hanno fatto tornare in vita le sue canzoni, rileggendole con gli eccellenti arrangiamenti curati dalla Folkorchestra. In particolare ci piace sottolineare le belle interpretazioni di Claudio “Cavallo” Giagnotti che con la sua voce ricca di virtuosismi ha ridato nuova vita a “Ndaticchia”, e di Enza Pagliara che ha incantato il pubblico con “Malachianta”, già nel suo repertorio da molto tempo. Da sottolineare anche il brano inedito in dialetto salentino cantato da Franco Simone, il quale è sceso poi in mezzo al pubblico per cantare “Lascia che sia respiro l'amore tra noi...." . Forse è questa aria, questo respiro, la chiave in cui scrivere un nuovo foglio pentagrammato?
Giovanni Epifani
Foto di Rodolfo Pati
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