Pedro Soler & Gaspar Claus – Al viento (Infiné, 2016)

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Portano cognomi differenti, ma sono padre e figlio. Pedro Soler (nato Pierre Alfred Genard, classe 1938; Soler è il cognome materno) è il grande chitarrista francese, di origini spagnole ma cresciuto in Francia, iniziato all’arte della chitarra manouche prima e di quella flamenca poi dal maestro granadino José Maria Rodriguez a Tolosa, capitale degli esiliati repubblicani fuggiti dalla Spagna franchista. Pedro predilige uno stile ‘arcaico’, che guarda alle dinamiche e alla ricchezza del suono piuttosto che agli eccessi virtuosistici. Com’è noto, si è esibito accanto a cantaores del calibro di Pepe de la Matrona, Almaden, Juan Varea ed Enrique Morente, ma a testimonianza di una grande apertura, ha incrociato le corde del suo strumento anche con Renaud Garcia-Fons, Raúl Barboza, Beñat Achiari, Kudsi Erguner e Ravi Prasad. Da parte sua Gaspar Claus (1983) è un violoncellista sperimentatore e versatile, con studi al conservatorio di Perpignan, dal cui formalismo si è poi affrancato, che da anima libera si muove a tutto campo (collaborazioni con Jim O'Rourke, Sufjan Stevens, Angélique Ionatos, Keiji Haino, Serge Teyssot-Gay Bryce Dessner e Barbara Carlotti). I due si erano ritrovati in “Barlande” (2011), ora è la volta di “Al Viento”, disco registrato in Islanda (con Valgeir Sigurösson) e rifinito in Spagna (Didier Richard). Spira un vento di libertà compositiva in questo album che, pur muovendosi sulla medesima fabulazione sonora del precedente lavoro della coppia, conduce a una più riuscita concordanza di spirito improvvisativo e andamento di derivazione flamenco. 
Si ascoltino gli otto minuti dell’iniziale “Cuerdas Al Viento”, una malagueña trasfigurata, ora malinconica ora rabbiosa, dove l’arpeggio delle sei corde incontra le sinuosità, le asperità dei raschiamenti e i bordoni ritmici del cordofono ad arco di Claus. Proviamo a seguire la sequenza delle track, pur convinti che non si riuscirà a rendere la densità, la sfida fatta di invenzioni, raffinatezza e sottigliezza di questo terreno comune familiare creato intorno all’arte del flamenco. Nella successiva “Vendaval”, su un modulo di buleria, i due si confrontano con sequenze più classicheggianti, mentre in “Corazon de Plata” – tra i brani di punta del disco – nel suono terso di Soler si innesta il tumulto violoncellistico del figlio, che con il suo strumento assume il ruolo del cantaor o imita le percussioni. Dalle serranas di “Sale la Aurora” si passa al vigore delle sevillanas (“Rocio y corrales”). D’improvviso, si entra nella condizione onirica e oscura di “Silencio Ondulado”, prodotta dal canto sussurrato di Matt Elliot e dalle distorsioni chitarristiche elettriche dell’ex-Noir Désir Serge Teyssot-Gay e del violoncello, che incorniciano il profilo dei tientos ordito dalla chitarra di Pedro. Dalla chiaroscurale petenera “Cien Enamorados” alla degna conclusione di “El sueño de la Petenera”, tra corde accarezzate e sfregate, si generano pulsioni intimistiche e accelerazioni, afflato meditativo e passaggi corposi: un trionfo di coinvolgente e incantevole complementarietà di individualità consanguinee. 


Ciro De Rosa

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