Nel cartellone di quarantacinque spettacoli offerti dal Napoli Teatro Festival Italia, le espressioni musicali tradizionali orali non sono secondarie. Innanzitutto, sul taccuino segniamo “Una Favola di Campania”, per la regia di Fabrizio Arcuri, un itinerario di letture sceniche che si sviluppano in diversi luoghi della Campania – dal Cilento alla metropoli regionale – a creare un’antologia di pratiche narrative della tradizione orale campana basate sulla lunga stagione di ricerca sul campo di Roberto De Simone. Al festival, tra le produzioni che pescano nel classico, c’è “Verso Medea” di Emma Dante, dramma al femminile con la musica degli insuperabili Fratelli Mancuso (10 e 11 luglio al Teatro Bellini a Napoli, 12 e13 luglio a Valva nel salernitano). Nientemeno che al San Carlo saliranno sul palco (27 giugno, ore 23.00) che i Foja con “Cagnasse Tutto”, in un concerto in quattro sezioni che porterà il rock ‘newpolitano’ al Massimo partenopeo. Invece, della commedia musicale “Frankenstein O’ Mostro”, scritta da Sara Sole Notarbartolo, fa pienamente parte l’ibrido musical-stilistico dei Posteggiatori Tristi. Rivolgendoci ora a quanto già proposto, nella sua trama polifonica ha procurato emozioni “Passage Through the World”, la performance ‘site-specific’ firmata dalla coppia di artisti visivi iraniani esiliati Shirin Neshat e Shoja Azari (immagini, video e spazio scenico).
Si tratta di un progetto di Change Performing Arts, in origine commissionato per il Teatro Pubblico Pugliese, realizzato in funzione del Museo Diocesano nella Chiesa di Donna Regina Vecchia nel cuore di Napoli, dove è stato presentato tra in prima il15 giugno e in replica dal 16 al 20. Shirin Neshat è tra le più celebri artiste contemporanee iranian; suo marito Shoja Azari, premiato con il Leone d’Argento alla 66a Mostra internazionale del Cinema di Venezia nel 2009, ha prodotto con lei video-installazioni, cortometraggi e pièce teatrali. “Passage Through the World” è una sintesi simbolica che intreccia musica, voci, teatro e dimensione scenica. Collocati nell’abside poligonale dalla volta a crociera di Donna Regina Vecchia, il musicista, cantante, suonatore di cordofono setar Mohsen Namjoo (autore dei canti e musiche) ha intorno a sé, come in un cerchio (una delle figurazioni simbolo della rappresentazione, a rappresentare ciclo della vita e della morte, della perdita e della rinascita), il quartetto Faraualla (Maristella Schiavone, Gabriella Schiavone, Maria Teresa Vallarella, Serena Fortebraccio); ai due lati del pubblico, sulle panche, stanno Antonella Morea e il coro femminile Giullari di Dio della parrocchia di Santa Chiara in Napoli, che nel loro abbigliamenti raffigurano le prefiche della lamentazione funebre rituale mediterranea.
Su grandi schermi sono proiettate immagini iconiche femminili di donne oranti. È un itinerario che si snoda lungo la Via della Seta per giungere fino al nostro Sud, mettendo al centro confluenze rituali sul tema della perdita, del lutto e del cordoglio. Mohsen Namjoo, iraniano del Khorasan – condannato anni fa in contumacia dalla giustizia iraniana per la sua recitazione “sprezzante” di versi coranici nella sua “Shams”, e oramai di residenza newyorkese, – virtuoso del liuto a manico lungo setar formatosi alla musica d’arte iraniana, con studi delle tecniche e dei repertori vocali del suo Paese, è musicista dall’ampia paletta sonora (tra l’altro, è in uscita in questi giorni il suo nuovo album “Personal Cipher”). Alle strutture modali della musica classica persiana Namjoo aggiunge la sua attitudine da rocker (nelle parti registrate, la chitarra elettrica s’intreccia con il cordofono tradizionale); fonde canto, vocalizzi, lamenti e inserti strumentali minimali, riplasmando canti che attraversano l’Asia centrale, il Medioriente, i Balcani fino al nostro “Sud”, che entra in scena con una toccante “Fenesta ca lucive”, eseguita dalla Morea e dal coro su un ritmo di tammurriata, e con le quattro Faraualla, artefici di gesto e canto polivocale, che interagiscono nelle composizioni dell’iraniano ed eseguono dal loro articolato repertorio, che mescola con naturalezza polifonia rinascimentale, canoni jazz, espressività vocale popolare meridionale e richiami al canto a più parti di area balcanica (“Inno alla Desolata”, “Rumelaj” e “Sind’”).
La partitura procede per sovrapposizione di musiche pre-registrate e di note suonate dal vivo; le lingue, le cadenze, le frasi melodiche e i ritmi si mescolano, esemplificando quell’idea di transito nel tempo, nello spazio e nelle pratiche culturali. La performance crea una polifonia che rende univoca e universale l’esperienza umana della perdita e del lutto, con la donna mediatrice rituale totalmente al centro. La potenza narrativa, l’azione scenica reiterata, le voci e gli strumenti, la fusione con le ‘magiche’ architetture della chiesa producono grandi effetti partecipativi, ma qualcosa nel racconto manca: forse proprio l’aspetto visuale contemporaneo, che ci aspettavamo più pronunciato, considerata la cifra artistica nell’ambito della fotografia, della videoarte e della filmica di Shirin Neshat e Shoja Azari.
Ciro De Rosa
Foto di Salvatore Pastore
Foto di Salvatore Pastore
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