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Quello di cui parliamo in queste righe è a tutti gli effetti e per molte ragioni un pietra miliare della world music. Almeno di quella più tradizionale e lanciata in un mercato internazionale secondo linee sostanzialmente inedite fino ad allora. Siamo nel 1987 e il giovane senegalese Youssou N’Dour - che da lì a breve diverrà una star internazionale e un rappresentante della musica senegalese in tutto il mondo - tiene un concerto memorabile ad Atene. N’Dour ha meno di trent’anni e Peter Gabriel si è accorto di lui. Dopo aver infatti suonato molto in Africa, da qualche anno il cantante nato a Dakar si è spostato a Parigi (dal 1984 per l’esattezza), ha percorso alcuni paesi europei con tour e concerti, e il suo carisma è fuori discussione. Non solo. La sua voce è trascinante. Oggi la riconosciamo tutti ed è un riferimento di primo piano nello scenario musicale internazionale, ma negli anni Ottanta è una rivoluzione: alta, squillante, ricca di sfumature, melismi, colori. In più N’Dour è pieno di idee, di cose da dire, di cose da fare, di progetti da realizzare con persone di tutto il mondo. E la sua band, la Super Etoile de Dakar, ingloba tutto il meglio della musica africana che piace ai non africani e agli africani: percussioni, batteria e talking drum, sassofono, chitarre elettriche, tastiere, basso e ballerine. Il concerto di Atene è il punto in cui confluiscono tutti questi elementi (musicali, politici, simbolici, estetici) e Peter Gabriel - nel pieno del tour di “So” - è lì a suggellarne l’importanza.
Attraversa il palco, richiama le persone che stanno aspettando nell’anfiteatro all’aperto e dice a tutti che a breve ascolteranno un grande gruppo di musicisti. E sopratutto li ascolteranno suonare un bel po' della musica che lui ama di più. Ecco fatto: il maestro europeo della world music (anche lui a un passo dal lanciare la Real World, il Womad e tutti gli artisti che tutti ascoltiamo e che abbiamo riverito: da Nusrat Fateh Ali Kan ai Tenores di Bitti), ha messo il sigillo su una delle star africane di più grande successo. La registrazione di quel concerto è rimasta per quasi trent’anni a riposare. Oggi finalmente i Real World Studios ci hanno messo le mani e, dopo un lavoro di restauro audio, di missaggio e di masterizzazione, circola in una veste nuova e ricca di informazioni. L’album infatti non solo è ottimo sul piano musicale (lo ripeto, la voce di Youssou è al massimo dello splendore e della forza, come si può riscontrare in un brano come “Ndobine”, nel quale si scaglia su altezze impressionanti, sotto le quali le percussioni si configurano come delle vere e proprie esplosioni di ritmo, di melodie, di forza nuova). L’album è una specie di libro di storia, nel quale si ripercorre la parabola di N’Dour e si riflette sugli elementi più innovativi della sua musica.
I brani di cui è composto “Fatteliku” sono in tutto sei e sono accomunati da una vivacità ritmica mai ridondante, che anzi fa impennare il flusso musicale su un livello di tensione molto piacevole e interessante (“Nelson Mandela”). Uno degli elementi che caratterizza tutti i brani è, inoltre, lo sviluppo. Cioè il modo in cui la band riesce a svolgere i suoni fino a raggiungere la tensione necessaria. Questa dimensione è legata al live ma è altrettanto determinata dalla forza dell’idea, dalla velocità della realizzazione, dall’estemporaneità di tutte le strutture armoniche, dalla melodia di ogni strumento. “Ndomine” è, in questo senso, molto rappresentativa. Come per gli altri brani, anche qui si viene presi da un irriducibile disorientamento, nel quadro del quale sembra impossibile non solo predeterminare ma addirittura cogliere fino in fondo gli sviluppi delle melodie, del ritmo, delle parti di cui è composto il brano. Ci si sente quasi scossi dalle percussioni, dal loro fragore (che nella seconda parte del brano assume un profilo più melodico, di sostegno di tutti gli altri strumenti), ma anche dall’ipnotismo della chitarra ritmica (stridente e piana, secca, tagliente), così come della melodia estremamente variabile della voce.
Daniele Cestellini
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